Questa grande salvezza/Qualcuno crede nel peccato

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English: This Great Salvation/Does Anyone Believe in Sin?

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Di Robin Boisvert su Vangelo
Capitolo 4 del libro Questa grande salvezza

Traduzione di Porzia Persio

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Un sabato pomeriggio di alcuni anni fa stavo riordinando di buona lena il garage. Il mio figlio maggiore, allora di circa quattro anni, mi dava una mano… così per dire. Lo sorvegliavo mentre occhieggiava diversi oggetti pericolosi.

“Papà, che cos’è questo?”.

“È uno scalpello. Non lo toccare”.

“E questo che cos’è?”.

“È una tanica di benzina. Allontanati di lì. Ehi! Metti subito giù quella sega, ragazzino”.

La cosa andò avanti per un po’ finché, ormai esasperato, mio figlio esclamò: “Ma papà, tutto quello che mi dici di non fare è proprio quello che voglio fare!”.

Probabilmente è proprio quel che disse Adamo, pensai tra me e me. Potevo ormai rassicurarmi dell’appartenenza a tutti gli effetti di mio figlio alla razza umana. E lo stesso si dica per ciascuno di noi. 

Qual è il problema?

Fate un sondaggio informale tra vicini, amici, colleghi, chiedendo quale sia, secondo loro, il problema fondamentale dell’umanità. Probabilmente la risposta sarà l’ignoranza o la mancanza d’istruzione. “Se la gente fosse più istruita, se potesse avere una più ampia visione del mondo, allora ci sarebbero meno problemi”, potrebbero dirvi, così come: “Un’educazione sessuale più diffusa preverrebbe l’AIDS e le gravidanze indesiderate. Una più diffusa istruzione potrebbe eliminare il razzismo e le incomprensioni che dividono le persone. Una migliore istruzione darebbe la possibilità ai poveri di trovare lavori migliori e stare lontani da droga e crimini”.

Thomas Greer, in un recente manuale sulla civiltà occidentale, afferma che durante l’Illuminismo, nel XVIII secolo, scienza e istruzione erano considerati dai grandi pensatori la risposta al dilemma umano. Greer scrive: “Il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Il credo della scienza e dell’istruzione divenne parte del mondo moderno. Negli Stati Uniti, fondati all’apice dell’Illuminismo, quel credo è rimasto come articolo di fede nazionale, nonostante oggi più che mai sia messo in discussione” (il corsivo è mio)[1]. Mentre è vero che l’ignoranza reclama una buona parte di vittime, il problema è ancora più basilare.

Tra coloro che mettono in discussione quell’”articolo di fede”, vi è l’eminente psichiatra Karl Menninger. Nei primi anni Settanta aveva scritto un breve libro dal titolo provocatorio Che ne è stato del peccato?. Qui egli osservava come la parola “peccato”, e il concetto che rappresenta, fossero cominciati a scomparire dalla nostra cultura attorno alla metà del XX secolo.

“In tutte quelle lamentazioni e rimproveri a opera dei nostri odierni rivelatori e profeti, manca qualsiasi menzione di “peccato”, che era invece una vera e propria parola d’ordine dei profeti biblici. Una volta era una parola presente in ogni mente, ora però la si sente di rado. Questo significa forse che nessun peccato è da ricercarsi in tutti i nostri guai, peccato che noi abbiamo commesso? Nessuno è più colpevole di nulla? Colpevole magari di un peccato di cui potremmo pentirci, o che potrebbe venir rimediato o espiato? Davvero dipende soltanto dal fatto che qualcuno possa essere stupido o malato o criminale, o magari dorma? Agire male è qualcosa che succede, lo sappiamo; di notte, si semina la zizzania in mezzo al grano. Eppure nessuno è responsabile, nessuno risponde di questi atti? Tutti riconosciamo ansietà e depressione, persino un vago senso di colpa; ma nessuno ha mai commesso peccato?... La parola “peccato”, che pare essere scomparsa, era davvero una parola dura. Una volta era forte, grave e sinistra. Rappresentava il fulcro nello stile di vita e nei piani di ogni essere umano civile. Ma la parola non c’è più; è quasi scomparsa del tutto, con la nozione che rappresentava. Perché? Forse nessuno pecca più? Nessuno più crede nel peccato?”[2]

Il dottor Menninger meriterebbe il plauso per essersi spinto molto più in là di altri in questo campo. E sicuramente ha ragione su tutta la linea. Il modello morale per la comprensione dei problemi e delle responsabilità dell’uomo è stato rimpiazzato da un modello medico, cosicché gli individui che commettono crimini odiosi sono raramente classificati come crudeli, malvagi o peccatori, quanto piuttosto come malati, insani di mente o pazzi.

Una disamina più accurata del libro del dottor Menninger tuttavia, mostra che, malgrado il suo appello alla società di tornare a considerare il peccato quale mezzo per capire la natura umana, egli stesso ha una comprensione fortemente inadeguata della materia. Egli vede il peccato su un piano esclusivamente orizzontale, il peccato commesso contro altri o magari anche se stessi. Per capire pienamente la natura del peccato, comunque, dobbiamo riconoscerne la dimensione verticale: il peccato è innanzitutto una offesa verso Dio.

Il Salmo 51 ci fornisce un chiaro esempio di questa verità. Qui Davide apre a Dio il proprio cuore nel pentimento. Il re è stato pubblicamente ammonito dal profeta Nataniele, e intimamente riconosciuto colpevole dallo Spirito per il suo adulterio con Betsabea e per aver orchestrato la morte del marito di lei come copertura. Eppure, malgrado quel che ha fatto, Davide grida verso Dio: “Ho peccato contro di te, contro te solo, e ho fatto ciò che è male agli occhi tuoi” (Salmi 51,4).

Davide non nega il peccato contro Betsabea e Uria, ma riconosce la peggiore caratteristica di ogni peccato, indipendentemente dal suo tipo, cioè che è contro Dio.

Il peccato, che sgradevole soggetto! E difficile, anche. È però assolutamente essenziale prenderlo in considerazione perché, se la nostra percezione di peccato è errata, lo sarà anche la nostra conoscenza di Dio, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo, della legge divina, del vangelo e della via della salvezza. Un’esatta comprensione del peccato è il bottone più basso sulla camicia della teologia cristiana; se cucito male, tutto l’indumento resterà sbilenco.


La gravità del peccato

Minimizzare il peccato è comune quanto il peccato stesso. Non è raro sentire la gente riferirsi ai propri peccati come “debolezze” o “difetti”. Nessuno è perfetto, si suol dire. Ci si può persino arrischiare ad ammettere: “Ho commesso un errore di giudizio”. Nessun peccato però è cosa da poco. Se non c’è peccato, allora non c’è salvezza. Se noi non siamo grandi peccatori, allora Gesù non è il grande Salvatore.

Il fatto che tutti noi siamo passibili di peccato ci svantaggia nei nostri tentativi di capirlo. Da soli semplicemente non possiamo giungere ad avere una visione nitida della questione. Grazie a Dio, egli ci ha fornito della sua infallibile Parola a riguardo. I capitoli iniziali del Genesi descrivono con chiarezza il dilemma peccaminoso dell’umanità, e il resto delle Scritture si possono leggere come la soluzione divina al problema.

In cinque brevi versetti, la Bibbia ci descrive come impotenti, empi, peccatori e nemici di Dio (Romani 5,6-10). La Parola di Dio ci dice che il peccato è universale. Il peccato è fallace, e anche tenace e potente. Il peccato è così devastante che soltanto una forza in tutto l’universo può sopraffarlo. Una forza soltanto, che risiede in una sola Persona, può sopraffarlo, perché una sola Persona è sempre vissuta senza peccato. Come disse l’angelo a Giuseppe: “Tu gli darai il nome di Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai loro peccati” (Matteo 1,21).

In aggiunta agli insegnamenti delle Scritture, vi sono le testimonianze di donne e uomini santi che nella storia della Chiesa sono stati consapevoli di essere peccatori quanto più erano vicini a Dio. Ascoltate come questi grandi santi della Bibbia valutavano se stessi:

Davide: “Io ho peccato contro il Signore” (II Salmi 12,13).

Isaia: “Io sono l’uomo dalle labbra impure” (Isaia 6,5).

Pietro: “Lungi da me, Signore; sono un peccatore!” (Luca 5,8).

Paolo: “Cristo Gesù venne al mondo per salvare i peccatori, di cui io sono il peggiore” (I Timoteo 1,15).

Il peccato è la trasgressione della legge (I Giovanni 3,4). Dio ci ha dato la legge e sta dietro di essa. Quando contravveniamo alle leggi divine, egli lo considera un affronto personale. Se potessimo vedere Dio dietro ogni situazione in cui la sua legge non viene rispettata, e avvertirne la giusta ira, capiremmo meglio la gravità del peccato.

Il sacerdote israelita Elia rimproverò i propri figli stolti e arroganti con queste parole: “Se un uomo pecca contro un altro uomo, Dio può intercedere per lui; ma se un uomo pecca contro il Signore, chi intercederà per lui?” (I Samuele 2,25). Purtroppo, le sue parole erano troppo poco e giungevano troppo in ritardo per cambiare i suoi figli. Essi non erano sufficientemente consapevoli della gravità del peccato.


Benvenuti nel porcile

L’essenza del peccato è stata descritta come egocentrismo. Tale pensiero è ben reso da Isaia 53,6: “Noi tutti come pecore eravamo erranti, ognuno di noi seguiva la propria via”. Osserviamo da vicino le implicazioni di questo versetto:

Come pecore. Tra gli animali da cortile meno intelligenti, le pecore solitamente non si accorgono del pericolo, se non quando è troppo tardi.

Eravamo erranti. La tendenza naturale delle pecore è di gironzolare; se il pastore non le tiene nel gregge, escono subito dal loro percorso.

Ognuno di noi. Il peccato è un problema universale che ci riguarda tutti.

La propria via. Questo è il nocciolo della questione. Vogliamo vivere le nostre vite senza fare riferimento a Dio, che ci ha creati e ci sostiene, e con il quale siamo in debito di ogni nostro respiro. Ascoltate le parole di William Ernest Henley, una “pecora errante” che sembra essersi arroccata nella propria via di smarrimento:

“Non importa quanto stretta la porta, quanto gravida di condanna la pergamena; io sono padrone del mio destino, sono il capitano della mia anima”. [3]

L’estensione del peccato è così ampia che la Bibbia usa numerose espressioni per esprimerne la natura terrificante e le sue catastrofiche conseguenze. Nel “peccato” sono inclusi concetti quali ribellione, malvagità, confusione, vergogna, “bersaglio mancato”, infedeltà, illegalità, ignoranza, disobbedienza, perversione e altro ancora.

Chiunque legga i primi tre capitoli dell’epistola di Paolo ai cristiani romani resta colpito dalla sua accusa sprezzante della razza umana. Sia ebrei che gentili sono imprigionati nella stretta del peccato. Le parole di Paolo sono talmente forti e inequivocabili che il lettore tende a considerarne estremo il ragionamento: “Starà parlando di Jack lo squartatore o di Adolf Hitler!”. Invece no; parla di me e di voi: “Non c’è alcun giusto, neppure uno… Non c’è alcuno che faccia il bene… Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Romani 3,10-12-23). Tutto ciò presenta un ritratto estremamente sfavorevole della razza umana.

In parte il nostro problema è di valutare i nostri peccati paragonandoli a quelli di altri. Se mi paragono ad Attila l’Unno, mi comporto piuttosto bene, ma in confronto a Madre Teresa, invece no. Se Dio non ci rivela la portata dei nostri peccati, non possiamo riconoscere la nostra depravazione.

Negli anni Ottanta vivevo nel bel paese di campagna di Lancaster, Pennsylvania. La vita laggiù era gradevole sotto ogni aspetto tranne che in uno: non riuscii mai ad abituarmi all’odore di letame. Quello di maiale era di gran lunga il peggiore. La cosa interessante è che, anche se io trovavo il loro odore disgustoso, i maiali non se ne preoccupavano minimamente. Come dice J.C.Ryle: “Proprio quegli animali il cui odore è per noi più ripugnante, non hanno alcuna idea di essere ripugnanti, né lo sono gli uni per gli altri”.[4] L’uomo perduto, a quanto sembra, può non avere chiaro quanto repellente il suo peccato sia agli occhi di un Dio santo e perfetto.

Come siamo potuti cadere così in basso? Che cosa mai è successo alla razza umana?

Può il leopardo cambiare le sue macchie?

Nel quinto capitolo di Romani (versetti 12-21), Paolo illustra sia la causa dei nostri peccati che quella del nostro completo perdono. Dovremmo sottolineare fin dall’inizio che la nostra discussione sui peccati dell’uomo riguarda il suo stato naturale fuori della grazia. Grazie all’opera redentrice di Cristo, la relazione tra uomo e peccato è radicalmente cambiata.

Il peccato ricadde su tutti gli uomini a causa del peccato di un solo uomo, Adamo. La prova di ciò è che tutti gli uomini sono mortali, poiché la morte fisica è il castigo per il peccato.

Quando frequentavo la scuola media, studiammo l’epoca puritana in America. Ricordo di aver visto l’illustrazione di un libro di testo con la didascalia: “Con la caduta di Adamo, tutti peccammo”. Riesco ancora a ricordare quanto quelle parole mi indispettirono. Allora pensai: È sbagliato fare il lavaggio del cervello ai bambini in questo modo!; riflettendo poi in termini personali, mi arrabbiai davvero: Non vedo perché dovrei precipitare con Adamo. Dopo tutto, chi lo conosce Adamo! Dire che trovavo tale dottrina offensiva, è ancora dir poco. È offensiva per il nostro senso della giustizia. L’uomo naturale la trova estremamente discutibile (che è una delle ragioni principali per cui ora credo sia vera).

Lo scopo di Paolo nel descrivere la nostra peccaminosità insita non è di irritare, quanto di informare. Comprendere il nostro rapporto con Adamo ci offre un nuovo modo di vedere la nostra relazione con Gesù Cristo.

Il rinomato pastore D.Martyn Lloyd-Jones scrisse: “Se mi chiedete: “È giusto che il peccato di Adamo debba ricadere su di me?”, io replicherei chiedendovi: “È giusto che la rettitudine di Cristo debba ricadere su di voi?”.[5]

Il peccato è il retaggio universale trasmessoci dal nostro padre comune, Adamo. Siamo per natura colpevoli e oppositori di Dio. Questo insegnamento è noto come peccato originale e descrive la condizione di caduta dell’uomo. Contraddice direttamente il concetto della nostra venuta al mondo in stato di purezza e innocenza. Sebbene l’uomo continui a essere creato a immagine e somiglianza di Dio, quell’immagine è stata sfigurata; adesso assomiglia alle rovine di un antico tempio. I segni della grandezza sono ancora evidenti, ma la gloria è scomparsa. Così come in uno specchio incrinato, l’immagine resta, ma del tutto distorta.

Il peccato originale comprende due ulteriori aspetti:

Depravazione totale. Si tratta di un termine generalmente frainteso e quindi svalutato. Non significa che un uomo è malvagio alla massima potenza, quella sarebbe pura depravazione. Depravazione totale significa che la corruzione del peccato danneggia l’uomo in ogni parte del suo essere: mente, emozioni, volontà, corpo. Non c’è nulla nell’uomo che non sia colpito dal peccato.

Totale incapacità. Ciò non significa che l’uomo non possa fare nulla di buono secondo parametri umani. Può ancora compiere atti di eccezionale bontà e possedere molte splendide virtù. Tuttavia, per quanto concerne le faccende spirituali, egli è impotente. Anche il “bene” che compie è macchiato dal peccato. Parafrasando la Confessione di Westminster a riguardo: “Con la caduta nel peccato, l’uomo ha completamente perso la capacità di fare qualsiasi cosa contribuisca alla propria salvezza”.

Donald MacLeod dice: [L’incapacità totale] significa che la conversione è oltre le possibilità dell’uomo naturale”.[6] Con l’eccezione di Cristo, niente di quel che l’uomo fa piace a Dio, perché non è né motivato dalla grazia di Dio, né si cura della gloria di Dio. Dio invece si cura in massimo grado dei nostri motivi.

Geremia dà voce all’incapacità totale chiedendo: “Può l’Etiope cambiare la sua pelle o un leopardo le sue macchie? Allo stesso modo, potreste voi abituati a fare il male, fare il bene?” (Geremia 13,23). Allorché Paolo disse agli Efesini che erano morti nei falli e nei peccati, li stava aiutando a comprendere non soltanto la potenza della grazia divina nella loro salvezza, ma anche il loro assoluto bisogno di tale grazia. Un morto non può in alcun modo partecipare alla propria salvezza.

E dunque che cosa succede dopo la conversione? Il peccato non è più presente? Ah, magari fosse così! Il potere del peccato su colui che è rinato si è certamente infranto. Romani 6 spiega che, mentre la presenza del peccato è ancora un fattore, la nostra connessione con esso è radicalmente cambiata. Lo Spirito Santo ora risiede in noi, mostrandoci la via da percorrere nel Signore. Non siamo più asserviti al peccato; non ci domina, né ci comanda più; non dobbiamo più obbedire alle sue sollecitazioni. La minaccia del giudizio non pende più sulle nostre teste, eppure continuiamo ad avvertire l’influenza del peccato.

Un modo utile per capire la nostra liberazione dal peccato è l’uso di tre diversi tempi verbali: siamo stati liberati dalla punizione del peccato; siamo liberi dal potere del peccato; saremo liberi dalla presenza del peccato. Ciononostante, per ironico che sia, quanto più vicini a Dio si cammini, tanto più si sarà consapevoli e consci del peccato. Ricordo che da bambino ero affascinato dai pulviscoli di polvere danzanti nel raggio di luce che filtrava dalla finestra. La polvere era presente ovunque, ma la si vedeva soltanto nella luce. Così è per il peccato; è reso manifesto dalla luce della Parola e dello Spirito di Dio. Più forte la luce, più evidente la polvere.

Malerbe dalle radici profonde

In quanto appassionato di vecchi libri, in particolar modo degli scritti dei puritani, mi sono spesso trovato a lottare con l’enfasi che le generazioni passate ponevano sul peccato, persino nelle vite dei convertiti. Dov’era la vittoria nelle loro vite?, mi chiedevo nei miei primi incontri con i loro scritti. Da allora sono giunto a capire che la loro consapevolezza del peccato, per acuta che fosse, non era maggiore della consapevolezza della grazia e della misericordia divine nel perdonare il peccato.

Prendiamo a esempio Jonathan Edwards, noto tanto per la sua vita santa, quanto per il suo grande sapere. Edwards affermò di avere “un senso di gran lunga più profondo della mia cattiveria e del male insito nel mio cuore di quanto non avessi prima della mia conversione”, segno di salute spirituale, nella sua opinione![7] Il suo nipote e biografo, Serano Dwight, sentì il bisogno di spiegare il pensiero del nonno. Edwards non era diventato più cattivo, ma ne aveva un senso più chiaro. Spiegò poi la sua osservazione con un’analogia:

Supponiamo che un cieco abbia un giardino pieno di malerbe velenose. Queste si trovano nel suo giardino, ma egli non ne è consapevole. Ora supponiamo che il giardino venga in gran parte ripulito dalle erbacce, e che tanti e bellissimi fiori e piante le abbiano rimpiazzate. L’uomo ritrova in seguito la vista. Ci sono meno erbacce, ma egli ne è più consapevole. Così, quanto più chiara la nostra visione spirituale, tanto maggiore la nostra coscienza del peccato.[8]

Le seguenti parole di J.C.Ryle forniscono un’eloquente conclusione al nostro capitolo sulla dottrina del peccato: “Il peccato, questa infezione della natura, sì che rimane, anche in coloro che sono rigenerati. Le radici dell’umana corruzione sono così profondamente piantate che persino dopo che siamo rinati, rinnovati, lavati, santificati, giustificati, e resi vivi membri di Cristo, tali radici restano vitali nel fondo dei nostri cuori e, come la lebbra sui muri della casa, non ce ne possiamo liberare, finché la casa terrena di questo tabernacolo non venga smantellata. Il peccato non esercita più senza dubbio il proprio dominio sul cuore del credente. È controllato, tenuto a bada, mortificato e crocifisso dal potere espulsivo del nuovo principio della grazia. La vita del credente è una vita di vittoria e non di sconfitta. Ma proprio quelle lotte che si combattono dentro di lui, quella battaglia che ogni giorno sa di dover affrontare, la stretta vigilanza che è obbligato a esercitare sull’uomo dentro di sé, la lotta tra carne e spirito, i tormenti interiori che soltanto chi li ha provati conosce, tutti si rifanno alla stessa grande verità: l’enorme potenza e vitalità del peccato… Felice il credente che lo capisce e, mentre gioisce in Cristo Gesù, non fa affidamento sulla propria carne, e mentre ringrazia Dio di averci dato la vittoria, mai dimentica di badare e pregare di non cadere in tentazione”.[9]


Discussioni di gruppo

  1. 1. Dividete il gruppo in due squadre, una per “Scienza/Istruzione” e l’altra per “Salvezza”. Ogni squadra deve alternarsi nel proporre cure per problemi sociali. Quale squadra ha apportato maggiori benefici all’umanità? 2. “Il modello morale per la comprensione dei problemi e delle responsabilità dell’uomo è stato rimpiazzato da un modello medico”, a detta dell’autore (pagina
  2. Quali prove di questo cambiamento vedete nel corpo di Cristo?
  3. Dio non è forse abbastanza smaliziato da non essere turbato dai nostri insignificanti peccatucci?
  4. Su una scala da uno a dieci, valutate quanto il vostro stile di vita si preoccupi della gravità dei peccati (1=peccato veniale; 10=peccato di assoluta gravità).
  5. Come viene definita l’essenza del peccato (pagina 3)? Concordate?
  6. Leggete Romani 3,10-18 a voce alta. Siate completamente onesti: vi è difficile accettare il fatto che ciò descriva voi, a parte la grazia redentrice di Dio?
  7. Qual è il retaggio di Adamo? E quello di Gesù?
  8. Come spieghereste “l’incapacità totale” (pagine 6-7) a un non cristiano?
  9. Rivedete i tre tempi della nostra liberazione dal peccato (pagina 6). In che modo tale spiegazione vi ha colpiti?
  10. Discutete la frase finale nella citazione conclusiva da J.C.Ryle (pagina 7).


Letture consigliate

Chosen by God di R.C.Sproul (Wheaton, IL: Tyndale House Publishers, 1986)


Note

  1. Thomas Greer, A Brief History of the Western World, 5th Ed. (SanfckLRDiego, CA: Harcourt Brace Jovanovich Publishers, 1987), p. 378.
  2. Karl Menninger, Whatever Became of Sin? (New York: Bantam Books, Inc., 1973), pp. 15–16.
  3. William Ernest Henley from Bartlett’s Familiar Quotations (New York: Little, Brown, and Company, 1919), p. 829.
  4. J.C. Ryle, Holiness (Hertfordshire, England: Evangelical Press, 1879, 1979), p. 65
  5. D. Martyn Lloyd-Jones, Romans: Assurance, Chapter Five (Grand Rapids, MI: Zondervan Publishing House, 1972), p. 219
  6. Donald MacLeod from Gathered Gold (Hertfordshire, England: Evangelical Press, 1984), p. 65
  7. Jonathan Edwards, The Works of Jonathan Edwards, Vol. 1 (Carlisle, PA: The Banner of Truth Trust, 1974), p. xlvii
  8. Ibid
  9. J.C. Ryle, Holiness, p. 5.