Questa grande salvezza/I frutti della giustificazione (II)
Da Libri e Sermoni Biblici.
Di Robin Boisvert
su Vangelo
Capitolo 9 del libro Questa grande salvezza
Traduzione di Porzia Persio
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Nel capitolo precedente abbiamo toccato brevemente l’argomento della nostra speciale, gioiosa relazione, ovvero del fatto che Dio è diventato nostro Padre. Ricordate l’amico che guardava con aria triste fuori dalla finestra della prigione, la cui cella era aperta? Se soltanto si voltasse, vedrebbe ben più che una porta spalancata. Vedrebbe un Padre pronto ad accoglierlo.
Posso ancora ricordare vividamente un sabato mattina con mio padre. Eravamo seduti entrambi al tavolo di cucina quando il telefono squillò. A quel tempo ero un giovane uomo lontano da Dio. Risposi al telefono e il mio cuore quasi si fermò.
Chi chiamava si presentò come ispettore di polizia presso la contea di Montgomery. Mi informò in termini legali che ero stato visto usare una sostanza controllata (marijuana) in un certo luogo la sera prima (il che era vero). Ero soggetto ad arresto e quindi mi venne detto di consegnarmi alla polizia.
Dall’espressione del mio viso mio padre capì che era accaduto qualcosa di molto grave. “Che cosa è successo?”, mi chiese.
Io riuscii a rispondere soltanto con un vacuo “Sono in un mare di guai”.
Dall’altro capo del telefono rieccheggiò una fragorosa risata. Alcuni “amici” mi avevano preparato un bel tiro. Lo sciocco fuorilegge era anche uno sciocco credulone. Non mi era nemmeno passato per la testa che la polizia non arresta la gente per telefono. Per la forma, lo fanno di persona.
Non dimenticherò mai quello scherzo, ma quel che mi colpì di più fu la reazione di papà. Avrebbe potuto rimproverarmi aspramente e chiamarmi sciagurato, cosa che sicuramente ero, ma invece la prima cosa che fece fu di riaffermare il suo amore e il suo sostegno. Ciò mi commosse profondamente. Non dubito che papà, se ne avesse avuto la possibilità, si sarebbe messo al mio posto prendendo su di sé il mio castigo. La sua abnegazione era proprio l’opposto di quel che mi sarei meritato.
Gesù narrò la storia di un altro figlio disgraziato che, dopo aver egoisticamente e prematuramente preteso la propria parte dell’eredità familiare, la scialacquò tutta quanta. Quando infine esaurì tutte le proprie risorse, il figliol prodigo decise di tornare a casa da suo padre e chiedergli la possibilità di venir ricevuto non come figlio, bensì come servo.
“Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te. Non sono più degno di essere chiamato figlio; fai di me uno dei tuoi servi” (Luca 15,18-19).Questo padre aveva ogni diritto di schernire e respingere suo figlio, e persino accettarlo come servo sarebbe stato segno di grande generosità. Invece, egli aspettò con ansia il suo ritorno e lo accolse con doni e un banchetto. La misericordia di Dio è illustrata in questa storia con il padre che ricolma il figlio di amore, perdono e accettazione, cioè proprio il contrario di quel che il figlio si sarebbe aspettato o meritato.
Finora il nostro studio della giustificazione ha prodotto la prova irrefutabile che questa è davvero una grande salvezza. Abbiamo appreso come lottare contro l’insistente influenza delle accuse e delle avversità. Abbiamo solcato il preoccupante mare dei nostri peccati, della santità e dell’ira di Dio. Abbiamo osservato da vicino la Croce, dove il nostro Salvatore scontò la condanna che meritavamo cosicché fossimo giustificati davanti a Dio. Lì egli ottenne per noi la pace con l’Unico che era stato oggetto della nostra ostilità; il perdono dall’Unico contro cui avevamo peccato, e l’unione con se stesso, la quale ci rende forti nella nostra battaglia contro il male. Concluderemo adesso osservando i due aspetti finali della nostra eredità in Cristo: l’adozione e la speranza di un futuro di gloria.
Rivelare il Padre
La teologia biblica ci insegna ad aspettarci una rivelazione che si dischiude progressivamente nelle Scritture. [1] Per esempio, in Genesi 3 il misterioso messaggio sui semi gettati da una donna che colpiscono la testa del serpente diventa chiaro ed evidente nella dichiarazione del Nuovo Testamento della crocifissione e successiva resurrezione di Gesù. In modo simile, l’Antico Testamento ci dà soltanto a grandi linee quel che sarà la rivelazione centrale del Nuovo: la paternità di Dio. Per la verità, ci sono passaggi che parlano di Israele come del primogenito figlio di Dio, così come altri frammenti di tale verità. Anche in quel caso però l’idea è solitamente di senso nazionalistico. Egli è il Padre di Israele, non dei singoli individui. Per la più ampia parte dell’Antico Testamento Dio è ritratto non come nostro Padre, ma come un Re magnifico e santo.
Naturalmente Dio è sempre stato Padre e Gesù Cristo è sempre stato Dio Figlio. Era però necessario che Gesù venisse a rivelarci Dio in quanto Padre perché, come Giovanni spiega nel suo vangelo, egli era l’unico qualificato a farlo: “Nessuno ha mai visto Dio, ma l’Unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, è colui che lo ha fatto conoscere” (Giovanni 1,18).
In questo versetto il termine greco per “lo ha fatto conoscere” è la parola da cui otteniamo “esegesi”. “Esegesi” significa spiegare o elencare i fatti su qualcosa. Per esempio, fare esegesi di un passaggio delle Scritture vuol dire insegnarlo in modo da svelarne il significato. Gesù, che è nel seno del Padre, luogo di intimità e tenerezza, è nella posizione ideale per conoscere il Padre perfettamente. E una parte importante del ministero di Gesù è di farcelo conoscere. Egli impartì efficacemente tale verità ai suoi discepoli, e il vangelo continua ancora oggi a impartirla a noi.
Ogni qualvolta Gesù si riferiva a Dio in quanto suo Padre, proclamava quel che ai tempi era un’affermazione rivoluzionaria, che non a tutti piaceva. I farisei in particolare si sentivano offesi da Gesù poiché nel parlare di Dio come suo Padre, implicava di essergli uguale. Ma il versetto precedente rende chiaro che Gesù aveva il diritto di “fare esegesi” del Padre, sarebbe anzi stato impossibile per lui non averlo fatto. Essendo della stessa sostanza del Padre e dello Spirito, Gesù rivelò l’identità di Dio come rivelò se stesso. Quest’ultimo punto merita una breve digressione. Quale rapporto c’è tra Dio Padre e Dio Figlio? Agostino, il teologo più influente della patristica, classifica l’insegnamento delle Scritture sulla natura di tale rapporto in tre gruppi:
- Quei versetti che rivelano che Gesù è inferiore a suo Padre a causa della sua incarnazione. Egli mise volontariamente da parte la propria gloria (Filippesi 2,5-8) e nacque come bambino. In seguito sofrrì fame, sete, fatica e altre debolezze che suo Padre non ha mai conosciuto. In questa condizione di uomo Gesù sapeva che suo Padre era più grande, e di propria volontà cercò e si sottomise alla guida del Padre suo. Ne troviamo un chiaro esempio nell’Orto del Getsemani: “E andato un poco in avanti [Gesù] si gettò con la faccia a terra e pregava dicendo: ‘Padre mio, se è possibile, allontana da me questo calice; tuttavia, non come io voglio, ma come vuoi tu’” (Matteo 26,39).
- Quei versetti che insegnano che Gesù, da prima della creazione del mondo, era con il Padre benché distinto da esso. “In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio” (Giovanni 1,1). “Ma tu, o Betlemme Efratah, anche se sei piccola tra le migliaia di Giuda, da te uscirà per me colui che sarà dominatore in Israele, le cui origini sono dai tempi antichi, dai giorni eterni” (Michea 5,2).
- Quei versetti che mostrano che il Padre e il Figlio non sono Dei separati, bensì di una sola sostanza. “Io e il Padre siamo uno” (Giovanni 10,30). [2]
Volete conoscere il Padre? Guardate Gesù. La sera dell’ultima cena, Filippo chiese: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gesù replicò: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni 14,8-9). Volete conoscere le vie del Padre? Guardate Gesù. “In verità vi dico che il Figlio non può far nulla da se stesso, se non quello che vede fare dal Padre; le cose infatti che fa il Padre, le fa ugualmente anche il Figlio (Giovanni 5,19). Volete conoscere maggiormente il Padre? Guardate Gesù. “Il Figlio è lo splendore della sua gloria e l’impronta della sua essenza” (Ebrei 1,3).
Gesù ridefinisce il nostro rapporto con Dio. In un momento privato con i discepoli poco prima della sua morte, Gesù affermò: “Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udito dal Padre mio” (Giovanni 15,15). Con l’insegnamento della Legge il popolo ebraico imparò a riverire un Padrone severo e distante. Con la vita e la morte di Gesù noi siamo stati riconciliati a un Padre vicino e amoroso.
Adozione: il nostro antidoto contro l’angoscia
Il rapporto unico tra Dio e tutti coloro che sono stati giustificati è illustrato nella dottrina dell’adozione, definita anche “filialità”. Indica il nostro status in quanto figli di Dio e si riferisce ai modi per i quali diveniamo suoi figli. L’adozione nella famiglia di Dio ha luogo non per nascita, ma per rinascita. Non avviene per maturazione, ma per rigenerazione. Non è naturale, ma sovrannaturale. [3] L’adozione è un dono della grazia che diviene nostra con il ricevere Gesù Cristo. “A tutti coloro che lo hanno ricevuto, a quelli cioè che credono nel suo nome, egli ha dato l’autorità di diventare figli di Dio” (Giovanni 1,12). Notate qui la condizione. Dio non è il Padre universale di tutta l’umanità. Quella è una nozione presuntuosa e umanistica. Dio è il creatore di tutti, ma è il Padre soltanto di quelli che hanno ricevuto Cristo.
Il termine “adozione” viene usato nella Bibbia esclusivamente da Paolo. Essendo cresciuto a Tarso, conosceva bene gli usi correnti nell’Impero Romano. L’adozione allora differiva dalla nostra concezione attuale in almeno due modi significativi. Innanzitutto, greci e romani adottavano adulti e non bambini. Invece di venir dato in adozione, un bambino non voluto (più spesso che non, una bambina) veniva solitamente abbandonato e lasciato a morire assiderato. Notizie dell’epoca danno un resoconto di questa pratica inumana in tono glacialmente laconico. In secondo luogo, poiché si trattava principalmente di una disposizione legale, l’adozione nel mondo pagano non aveva quelle connotazioni di calore e amore altruista che le associamo al giorno d’oggi. Era pragmatica, una transazione d’affari. Quando qualcuno non aveva eredi, adottava un maschio maggiorenne per portare avanti eredità e patrimonio di famiglia. L’adozione serviva in quanto forma di sicurezza sociale. Secondo un commentatore “Il figlio adottivo acquisiva in una volta i diritti del genitore e si impegnava a mantenere il testatore e la sua famiglia con parte del reddito assegnatogli fino alla fine della loro vita… Quindi l’adozione era un modo per prendersi cura degli anziani”. [5]
Anche se Paolo indubbiamente conosceva l’istituto romano dell’adozione, è più che probabile che la sua conoscenza dell’Antico Testamento e della storia ebraica influissero sulla sua idea di adozione. Sebbene la parola “adozione” non ricorra mai nell’Antico Testamento, se ne ritrova certamente il concetto. Ed è qui che si ritrovano la bontà, la gioia e l’amore incondizionato che noi (insieme con Paolo) associamo all’adozione. William Hendriksen scrive: “Quant’è completamente diversa la natura dell’adozione praticata nell’Antico Testamento (dal modello romano)… La figlia del Faraone non adottò forse Mosè (Esodo 2,10), anche se era soltanto, in termini umani, un bambino indifeso? E Mardocheo non allevò forse la propria cugina, una bambina chiamata Ester (Ester 2,7)?”. [6]
Scrivendo Paolo usa sovente termini dal linguaggio quotidiano e li investe di un significato spirituale più profondo. Hendriksen suggerisce che il riferimento all’adozione segua lo stesso modello: “Quando in Romani 8,15 e in Galati 4,5 Paolo usa il termine “adozione”, la parola e l’accezione legale erano presi in prestito dalla pratica romana, ma l’essenza proveniva dalla divina rivelazione nell’Antico Testamento”. [7]
L’adozione riguarda un profondo bisogno umano, un’insicurezza universale. Il Nuovo Testamento parla di “quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la loro vita” (Ebrei 2,15). Naturalmente molti proclamano di non aver paura, ma l’intera razza umana lotta contro quella che un filosofo tedesco del XX secolo definisce “Angst”, una persistente angoscia che balugina proprio da sotto la superficie dell’anima. Non si tratta di un’angoscia imputabile a qualche causa specifica. È vaga e nebulosa, ma fin troppo reale. Qualcuno l’ha descritta come il sentirsi scaraventati in un’esistenza brutale e incomprensibile o l’essere abbandonati dai propri genitori.
La salvezza mediante Gesù Cristo è l’unica risposta a questa paura. “Poiché voi non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per cadere nuovamente nella paura”, scrive Paolo, “Ma avete ricevuto lo Spirito di filialità (adozione) per il quale gridiamo: ‘Abba, Padre’” (Romani 8,15). Forse l’unico modo per comprendere l’immagine vivida di questo versetto è con una storia vera.
Un mio amico adottò una bambina a Seoul in Corea. Mi ha descritto quanto fosse difficile trovarsi in mezzo a tanti bambini non voluti e bisognosi d’affetto all’orfanotrofio. Erano tutti avidi di attenzione e gli si attaccavano addosso nella speranza di ricevere una carezza o un sorriso. Nel vedere quei faccini disperati avrebbe voluto prenderli tutti con sé, ma per quanto doloroso fosse lasciarli andare, egli ricorda ancora il momento pieno di gioia in cui scelse Renee, la sua futura figlia, e la prese in braccio.
Adesso, quando Renee si trova a combattere con le tipiche insicurezze dell’infanzia, tutto quel che deve fare è chiedere: “Papà, davvero mi vuoi bene?”. Proprio perché è stata adottata, suo padre può risponderle in modo speciale. “Renee”, le dice, “Nessuno mi ha costretto a prenderti. Non ho dovuto portarti nella mia famiglia, non ero obbligato a farlo. Però lo volevo, Renee. Ti volevo così tanto che ho viaggiato per mezzo mondo pur di trovarti e fare di te mia figlia. Ti ho scelta deliberatamente, Renee, e ti vorrò sempre, sempre bene”.
Gesù non ha dovuto lasciare il paradiso e venire sulla terra. Nessuno lo costringeva. Perché dunque è giunto qui? Perché potesse guardarci negli occhi e dirci: “Voi! Prendo voi! Non sarete più estranei, non sarete più miei nemici. Io vi cambierò. Mi riconcilierò con voi. Voi sarete i miei figli!”. Per essere sicuri che capissimo perfettamente ciò che l’adozione implica, Paolo usa la parola aramaica “Abba”. È un termine informale che troviamo nel lessico di ogni bambino e tradurremmo come “Papà”. Questa è la parola con cui Gesù si appellò a Dio mentre sudava sangue nell’orto del Getsemani. Non chiamò suo Padre con il tono di voce freddo e formale che ci aspetteremmo da uno scolaro inglese. Nella sua passione egli pregò “Abba! Papà!”. Paolo afferma che l’adozione fa scaturire un grido dal nostro cuore, una parola molto forte. E ascoltate l’affermazione di Martin Lutero nel XVI secolo a proposito di questa frase:
Questa non è che una piccola parola, eppure ciononostante essa comprende tutte le cose. La bocca non proferisce parola, ma l’affetto del cuore parla alla propria maniera. Se pure angoscia e terrore mi opprimessero da ogni lato, e mi paresse di venir abbandonato e scacciato dalla tua presenza, io però ti sono figlio e tu sei il Padre mio in Cristo: io sono diletto a causa del Diletto. Perché questa piccola parola, Padre, viene efficacemente concepita nel cuore, essa trasmette tutta l’eloquenza di Demostene, Cicerone e tutti i più eloquenti retori che mai furono al mondo. Questa materia non si può esprimere a parole, ma con gemiti, i quali gemiti non si possono pronunciare con parole di eloquenza poiché nessuna lingua può esprimerli. [9]
La parola “Abba” indica libertà, sicurezza, riconoscimento gioioso, dolce risposta, gratitudine immensa e fiducia filiale. [10] È questa parola il nostro antidoto all’angoscia. Lo Spirito che abbiamo ricevuto, ben diversamente dal produrre paura e soggezione, ci ha resi liberi di chiamare Dio nei modi più intimi possibili.
La parte della giornata che preferisco è quando torno a casa dopo il lavoro per la gioia dei miei quattro bambini che gridano ripetutamente “Papà! Papà!” colmandomi di baci e abbracci. Per quanto questo saluto sia informale e spontaneo per loro, è tanto più meraviglioso e appagante per me. Non ho dubbi che le nostre grida tocchino il nostro Padre celeste allo stesso modo.
Sentire la cura del Padre
Abbiamo spesso visto in questo libro che la giustificazione è un obiettivo che nella realtà non viene toccato dallo stato mutevole delle nostre emozioni. I sentimenti costituiscono una base poco solida della nostra amicizia con Dio e l’emotività è spesso controproducente. Ma parlare contro i sentimenti e definire la fede meramente in termini di azioni e fatti è togliere il cuore dall’amore di Dio. Se le emozioni sono così facilmente riconosciute e apprezzate nei rapporti umani perché vorremmo eliminarle dal nostro rapporto con Dio? Vi è un elemento soggettivo del conoscere Dio ed è quello a cui si riferisce Paolo in Romani 8,16: “Lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio”. Il senso intimo della presenza di Dio, la consapevolezza emotiva del suo spirito amoroso è un frutto importante (ma non una radice) della giustificazione. Credere diversamente non è del tutto cristiano.
Una delle funzioni principali dello Spirito Santo è quella di benedirci con l’assicurazione che davvero siamo figli di Dio. Come disse il filosofo Blaise Pascal: “Il cuore ha delle ragioni che la ragione non può comprendere”. [11]
Non voglio certo dire che per gioire del sentimento dell’amore di Dio si debba diventare mistici. Infatti, maggior conoscenza acquisiamo sulle affermazioni nelle Scritture della paternità di Dio, maggiormente consapevoli saremo della sua continua presenza. Il fatto stesso di essere parte della famiglia di Dio è qualcosa di meraviglioso, anche se a prima vista ciò può non essere evidente. Dopo tutto, quasi tutti noi siamo cresciuti in una famiglia e la prendiamo per scontata. Abbiamo forse mancato di apprezzare adeguatamente la portata dell’amore sacrificale di mamma e gli sforzi di papà per non farci mancare nulla. La gratitudine non è automatica. La parte triste è che se non impariamo a essere grati per queste benedizioni, alla fine le sentiremo come dovute. Allo stesso modo possiamo prendere per scontata la bontà del nostro Padre. Eccoci qui, orfani portati di peso dai vicoli più squallidi al palazzo del Re, eppure continuiamo a lagnarci e lamentarci. Quanto siamo fortunati ad avere un Padre il cui amore è superato soltanto dalla sua pazienza.
Una veloce panoramica su alcuni dei modi con cui il nostro Padre si prende cura di noi può aiutarci ad apprezzare con maggior pienezza il suo amore. Tanto per cominciare, non dimentichiamo la sua cura provvidenziale. Sappiamo tutti che fa piovere sull’iniquo così come sul giusto, ma ciò non lo rende in alcun modo meno magnifico. Fermatevi a riflettere su tutte le cose “normali” che prendiamo per garantite come cibo, casa, famiglia e amici. Questi sono doni magnanimi di un Padre amoroso non meno delle profezie e delle parole di saggezza.
Sir Robert Grant, seppur con linguaggio arcaico, ricrea la meraviglia per la provvidenza del nostro Padre nel suo inno Oh, Adorate il Re:
Quale lingua può enumerare l’abbondanza delle tue cure? Essa aleggia nell’aria, risplende nella luce. Scorre dalle colline, discende nelle valli, e dolce si distilla in pioggia e rugiada.
Tali manifestazioni della tenera considerazione del Padre nostro meritano la poesia. E pensare che questi benefici sono l’ulteriore vantaggio per averci semplicemente messo al nostro posto! Non resta spazio per l’orgoglio quando vediamo quanto dipendenti siamo dalle cure provvidenziali del nostro Padre.
Gli inglesi amano i titoli. Signori e signore, duchi e conti abbondano. Un titolo molto interessante è quello di “Lord Protettore”. Re Edoardo VI era soltanto un ragazzo allorché ereditò il trono da suo padre Enrico VIII, così toccò al Lord Protettore provvedere al giovane re e agli affari del regno. Dio è il nostro Lord Protettore. Egli prende su di sé i nostri affari per il nostro bene e ci protegge efficacemente contro i pericoli.
Io sono per natura una persona mite, non incline all’irascibilità (se si escludono le piste da golf). Però ho notato in me una certa animosità o giusta rabbia allorché qualcosa minaccia mia moglie e i miei figli, che sembrano essere istintive. Credo mi siano state instillate da Dio e, anche se sono sicuro che potrebbero venir espresse in modo peccaminoso, non ce n’è bisogno, è per proteggere la mia famiglia. Avere un Padre celestialmente protettivo ci dà modo di abbandonarci a una fiducia infantile, proprio come il mio padre umano mi fu di conforto durante una penosa esperienza di alcuni anni fa.
La prima gravidanza di mia moglie finì in un aborto spontaneo. Fu un momento estremamente doloroso, ma nessuno di noi era preparato al pericolo che ne seguì. Poiché perdemmo il bambino in piena notte, il dottore ci disse di recarci all’ospedale il mattino dopo. Clara sanguinava copiosamente, ma pensavamo che fosse normale… finché alle 6 del mattino lei non collassò e perse i sensi. Con grande fatica riuscii a chiamare l’ambulanza e a prendermi cura di lei nel frattempo. Malgrado la situazione rischiosa, riuscimmo a portare Clara in ospedale e infine le sue condizioni si stabilizzarono. Che sollievo!
Parte del lavoro di un pastore è di agire responsabilmente in tempi di crisi, così mentre mi occupavo dei documenti per il ricovero e di altri dettagli durante la mattinata, riuscii a tenere le mie emozioni sotto controllo. Andò tutto liscio finché non chiamai i miei genitori e mio padre rispose al telefono.
“Papà, abbiamo perso il bambino. Clara ha avuto un aborto spontaneo ieri notte”.
“Oh no, Rob. Non sai quanto mi dispiace”.
Mentre mi diceva quelle parole semplici e sincere, qualcosa dentro di me si spezzò e scoppiai in lacrime. Ero sorpreso dall’intensità del mio pianto e di quanto velocemente mi avesse sopraffatto. Poi mi resi conto di essere con mio padre e che non dovevo più gestire la situazione, ma ero libero di sfogare le emozioni che avevo tenute dentro. Potevo essere suo figlio. Sotto l’ombrello della protezione celeste del nostro Padre siamo liberi di essere vulnerabili e di esprimere le nostre più recondite emozioni (naturalmente, è anche vero che se piangiamo troppo a lungo, papà ci incoraggerà a “piantarla con i piagnistei” e tirare avanti!).
Vi è un’illimitata quantità di pepite spirituali da cercare nella rivelazione di Dio in quanto Padre. E per quanto i nostri padri terreni possano presentare qualità divine, essi non sono lontanamente paragonabili al nostro Padre celeste.
Guardare avanti al futuro
Che cosa ha spinto Iddio a donarci l’incomparabile privilegio dell’appartenenza alla sua famiglia? Paolo torna indietro verso l’eternità passata per fornirci una risposta: “Poiché in lui ci ha eletti prima della fondazione del mondo, affinché fossimo santi e irreprensibili davanti a lui nell’amore, avendoci predestinati a essere adottati come suoi figli per mezzo di Gesù Cristo secondo il beneplacito della sua volontà” (Efesini 1,4-5).
Fu l’amore di Dio a produrre questa grande salvezza. Siate sicuri che i vostri meriti individuali (o magari la loro mancanza) non hanno mai avuto peso. Dio, nella meraviglia del suo amore, decise di adottarvi prima della creazione del mondo. Quanto è di conforto sapere che Dio ci ha scelti a prescindere dal nostro essere belli, intelligenti o buoni. Se così fosse stato, sarebbe stato tentato di scambiarci per un modello migliore! Non abbiamo meritato l’adozione con le nostre opere e non la manteniamo per mezzo di queste. L’adozione è un dono di grazia che scaturì dal cuore di Dio proprio all’inizio dei tempi.
Guardare indietro all’eternità passata provoca un’effusione di gratitudine, ma anche sbirciare nel futuro eterno è altrettanto eccitante. Dobbiamo ancora vedere la pienezza di tutto ciò che l’adozione comporta. Paolo parla per ogni cristiano nell’esprimere la sua grande anticipazione del futuro: “Noi stessi, che abbiamo le primizie dello Spirito noi stessi, soffriamo in noi stessi, aspettando intensamente l’adozione come figli, la redenzione del nostro corpo” (Romani 8,23).
Malgrado la nostra condizione attuale come figli e figlie di Dio, la nostra adozione non sarà pienamente conclusa fino al giorno in cui Dio redimerà, o risusciterà, i nostri corpi. Pochi argomenti hanno scatenato così tante speculazioni nella Chiesa come questo. Tutti noi desideriamo capire che cosa ci attende alla fine dei tempi. Anche se per la mente naturale queste cose sono avvolte nel mistero, le Scritture ci forniscono a grandi linee quel che possiamo aspettarci si svolgerà.
La Bibbia parla di tre stadi nella vita umana. Il primo è lo stato naturale, che va dal nostro concepimento alla nostra morte fisica. Corpo e anima sono congiunti. Questa è la vita come la conosciamo nel mondo presente. Nonostante il fatto che tale stato implichi una gran quantità di affanni e sofferenze, pochi tra noi hanno fretta di passare allo stadio successivo, quello intermedio. Questo periodo si svolge dal tempo della nostra morte fino al ritorno di Gesù Cristo ed è caratterizzato dalla separazione del corpo dall’anima o spirito (uso questi termini in modo intercambiabile). La nostra parte fisica torna a essere polvere, mentre quella immateriale “ritorna a Dio che ce la diede” (Ecclesiaste 12,7). Gli spiriti di tutti coloro che sono morti in Cristo sono attualmente con Cristo. Non troverete un posto migliore di quello.
Paolo, sapendo di essere in procinto di affrontare la stessa morte, disse chiaramente di trovare lo stato intermedio superiore a quello naturale: “Sono stretto tra due lati: avendo il desiderio di partire e di essere con Cristo, il che mi sarebbe di gran lunga migliore” (Filippesi 1,23).
Mentre era sulla Croce, Gesù promise al ladrone penitente che quello stesso giorno sarebbero stati insieme in paradiso (Luca 23,43). Se mettiamo a confronto questo versetto con 2Corinzi 12,1-4 vedremo che “cielo”, “paradiso” e “essere con Gesù” si riferiscono tutti allo stesso luogo. Durante la permanenza nello stato intermedio non saremo né incoscienti (“il sonno dell’anima”), né sconteremo condanne in purgatorio, cose che non sono dottrine scritturali. Saremo piuttosto istantaneamente conformi all’immagine di Gesù, e la nostra santificazione sarà completa. Mai più saremo turbati dalla presenza del peccato. Meglio ancora, godremo della completa amicizia con il Signore. È la mia sola preoccupazione. Se sono con lui, non dovrò occuparmi di dettagli irrisolti.
Per quanto splendido sia questo stato intermedio, non è però quello finale della nostra esistenza. Verrà il tempo in cui “la tromba suonerà, i morti risusciteranno incorruttibili e noi saremo mutati” (1Corinzi 15,52). Questo è noto anche come lo stato glorificato e avrà inizio al ritorno di nostro Signore. Quel giorno i morti risusciteranno e saranno riuniti ai loro corpi glorificati.
Ancora una volta è Paolo a descrivere che cosa accadrà quel giorno: “La nostra cittadinanza è infatti nei cieli, da dove aspettiamo pure il Salvatore, il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro umile corpo, affinché sia reso conforme al suo corpo glorioso secondo la sua potenza che lo rende in grado di sottoporre a sé tutte le cose” (Filippesi 3,20-21).
Il capitolo più lungo nelle lettere di Paolo, 1Corinzi 15, si concentra quasi esclusivamente sulla nostra vicina resurrezione. Egli scrisse il capitolo in risposta ad alcuni membri della chiesa di Corinto che consideravano la resurrezione non credibile e non necessaria. Nel caso avessimo tendenze corinziane, prendiamo nota delle istruzioni di Paolo in quel capitolo:
- La resurrezione è essenziale alla cristianità. Se togliete la resurrezione di Cristo, toglierete le basi del perdono (vv.12-19).
- Gesù Cristo è la primizia di coloro che risorgono; la sua resurrezione garantisce quella di tutti coloro che sono in Cristo (vv.20-22).
- La morte, il nostro ultimo e più grande nemico, verrà sopraffatta dalla resurrezione. Poiché Gesù morì e poi risorse, egli non è più soggetto alla morte. La Parola di Dio, l’esempio di Gesù e la presenza dello Spirito Santo bastano per pascolarci attraverso questa valle oscura e tenebrosa. Ben lontana dal divorare il cristiano, la stessa morte verrà ingoiata dalla vittoria, la vittoria di Gesù Cristo (vv. 26,54-56).
- A che cosa assomiglieranno quei corpi risorti e glorificati? Paolo dice che avranno una certa qual rassomiglianza ai nostri corpi attuali, ma ne saranno anche significativamente differenti. Il rapporto tra una ghianda e una quercia può servire come metafora calzante per descrivere tale differenza. Possiamo anche saperne di più studiando l’aspetto che Gesù assunse dopo la resurrezione. I nostri nuovi corpi saranno incorruttibili, potenti, gloriosi e soprattutto di natura spirituale (vv.35-44).
Fatti di sterco e fango
Mentre cerco di portare questo capitolo finale a conclusione sento una rinnovellata simpatia per Paolo, i cui lunghi tributi alla grazia e misericordia divine hanno reso le frasi senza punteggiatura una forma d’arte. Come potremmo finire? La dottrina della giustificazione non ha rivali in finalità e bellezza. Non è un caso che le quattro creature viventi proclamino incessantemente la santità del Signore e che a ogni dichiarazione i 24 anziani si prostrino in continua adorazione dinnanzi al glorioso Agnello di Dio (Rivelazioni 4,8-11).
La parabola di Gesù sul festino di nozze ci lascia con la giusta miscela di celebrazione e sobrietà (Matteo 22,2-14). Probabilmente conoscete già questa storia. Un re teneva il banchetto di nozze per il figlio e aveva inviato inviti in tutto il regno. Quando tuttavia gli ospiti onorati respinsero l’invito, il re rifiutò di cambiare i propri piani.
“Andate agli angoli delle strade e invitate al banchetto chiunque troviate”, ordinò. Presto la sala fu colma. Quegli ospiti di basso rango non erano però a conoscenza dell’etichetta reale, così probabilmente il re offrì loro degli abiti adatti all’occasione.
Nel mezzo della festa il re entrò nella sala del banchetto per incontrare gli ospiti, e qui troviamo il nocciolo della parabola: “Ma quando il re entrò egli s’avvide di un uomo che non indossava l’abito da cerimonia. ‘Amico’, chiese il re, ‘Come hai fatto a presentarti senza l’abito da cerimonia?’”.
Nel cercare di comprendere l’indignazione del re, qualcuno ha pensato che all’epoca di Gesù fosse uso comune per il padrone di casa quello di fornire ai propri ospiti abiti da cerimonia, specialmente a quelli meno abbienti. Quell’ospite indegnamente vestito non era un’innocente vittima della povertà, ma aveva bensì sfacciatamente disprezzato la generosa offerta del re. Senza alcuna esitazione il re ordinò che venisse legato mani e piedi e gettato fuori nell’oscurità.
Iddio Onnipotente ci ha raccolti dagli angoli delle strade e ci ha offerto un posto al banchetto di nozze del Figlio suo. Egli ci ha dato abiti di giustizia per sostituirli ai nostri luridi stracci. Si sta approntando una festa magnifica ed eterna. Prestiamo però una stretta attenzione alle regole di stile. Abiti cuciti a mano, non importa quanto ben fatti o alla moda, saranno un insulto per il Signore del banchetto. Soltanto il dono gratuito della giustificazione, l’opera compiuta di nostro Signore Gesù Cristo ci accompagnerà al favore e alla presenza di Dio. “Se avessi tutta la fede dei patriarchi”, scrisse un santo del XIX secolo, “Tutto lo zelo dei profeti, tutte le buone opere degli apostoli, tutte le sante sofferenze dei martiri e tutta la risplendente devozione dei serafini, io vi rinuncerei, e anzi li riterrei non altro che sterco e fango, qualora messi a confronto con la morte infinitamente preziosa e la giustizia infinitamente meritevole del Signore Gesù Cristo”. [16]
Liberi dall’ira divina e giustificati dalla sua grazia abbiamo soltanto cominciato a comprendere la vastità di questa grande salvezza. Abbiamo ancora un po’ di tempo, però. Un’eternità, anzi, sebbene anche questa potrebbe non essere abbastanza.
Discussioni di gruppo
- Qual è il ricordo più bello che avete di vostro padre?
- Discutete l’”angoscia” descritta dall’autore nell’omonimo capitolo. Come si esprime in coloro che non sono stati giustificati in Cristo?
- Discutete le vostre reazioni alla storia dell’adozione di Renee.
- Elencate i tre aggettivi a cui pensate nell’udire la parola “giudice”. E che ne dite di “Padre”?
- Avete avuto momenti difficili con il vostro padre terreno tanto da rendervi difficile avvicinarvi a quello celeste?
- “Quanto è di conforto sapere che Dio ci ha scelti a prescindere dal nostro essere belli, intelligenti o buoni”, scrive l’autore. Che cosa dunque lo ha spinto ad adottarci?
- C’è qualcosa che vi imbarazza nel riferirvi a Dio come “papà” nelle vostre preghiere?
- Che cosa ha fatto per voi il vostro Padre celeste la scorsa settimana?
- Quale tra le seguenti risposte esprime meglio la vostra speranza della gloria futura? A) Non vedo l’ora! – B) Mi sembra bello – C) Non sono pronto – D) Un volo di sola andata per dove?
- Leggete Ebrei 11,13-6 ad alta voce. Che cosa caratterizzava gli individui qui descritti? Come possiamo sviluppare un desiderio simile?
Letture raccomandate
Immortality di Loraine Boettner (Phillipsburg, NJ: Presbyterian and Reformed Publishing Company, 1984)
The Bible on the Life Hereafter di William Hendriksen (Grand Rapids, MI: Baker Book House, 1987)
The Atonement di Leon Morris (Downwers Grove, IL: InterVarsity Press, 1984)
The Glory of Christ di Peter Lewis (Chicago, IL: Moody Press, 1997)