Il tradimento cosmico (Gennaio 2007)

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English: Cosmic Treason (January 2007)

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Di R.C. Sproul su La Natura del Peccato
Una parte della serie Right Now Counts Forever

Traduzione di Francesca Macilletti

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La domanda “Cosa è il peccato?” viene trattata nel Catechismo Minore di Westminster. La risposta donata a questa domanda di catechesi è semplicemente questa: “Il peccato è qualsiasi volontà di conformità alla legge di Dio o la sua trasgressione”.

Esaminiamo alcuni degli elementi di questa risposta. Per prima cosa, il peccato è identificato come una sorta di volontà o mancanza. Nel medioevo, i teologi cristiani provarono a definire il male o il peccato in termini di privazione (privatio) o negazione (negatio). In questi termini, il male o il peccato erano definiti dalla loro mancanza di conformità alla bontà. La terminologia negativa associata col peccato potrebbe essere vista, usando termini biblici, come disobbedienza, assenza di Dio, immoralità. In tutti questi termini è possibile notare la parte negativa – quella in grassetto. Ulteriori esempi potrebbero includere altre parole quali disonore, anticristo e altre.

Comunque, per ottenere una visione completa del peccato, dobbiamo considerare che esso implica più di una negazione della bontà o una mancanza di virtù. Potremmo pensare che il peccato, se definito esclusivamente in termini negativi, sia semplicemente un'illusione. Ma i segni del peccato mostrano, in maniera drammatica, la realtà del suo potere la quale non potrà mai essere spiegata senza considerare l'attrazione per l'illusione. I riformatori aggiunsero all'idea di privatio, la nozione di attualità o attività, in modo che il male possa essere, pertanto, individuato nella frase “privatio actuosa”. Questo sottolinea il carattere attivo del peccato. Nel catechismo, il peccato è definito non solo una volontà di conformità ma, anche, un atto di trasgressione, un'azione che implica l'oltrepassare – o violare – uno standard.

Per comprendere il significato di peccato, non possiamo parlarne senza considerare la sua relazione con la legge. È la legge di Dio che determina cosa è il peccato. Nel Nuovo testamento, l'apostolo Paolo, e precisamente in Romani, spiega che c'è una relazione inseparabile tra peccato e morte e tra peccato e legge. La semplice formula è questa: l'assenza del peccato equivale all'assenza della morte; l'assenza della legge equivale all'assenza del peccato. L'apostolo afferma che quando non c'è legge, non c'è peccato, e dove non c'è peccato non c'è morte. Questa argomentazione è presente nella premessa secondo la morte invade l'esperienza umana come un atto di giustizia divina per il peccato. L'anima che pecca è quella che muore. Comunque, senza legge non ci potrebbe essere peccato. La morte non può far parte dell'esperienza umana prima della rivelazione della legge di Dio. È per questa ragione che l'apostolo afferma che la legge morale esisteva, in effetti, prima che Dio donasse a Israele i dieci comandamenti. L'argomentazione implica che la morte fosse in questo mondo prima dell'episodio del monte Sinai, che la morte regnava sin dai tempi di Adamo. Questo può solo significare che la legge morale di Dio venne data alle Sue creature molto prima che le Tavole della Legge fossero consegnate al popolo d'Israele.

Questo dà credito all'asserzione di Immanuel Kant di un imperativo morale universale che chiama l'imperativo categorico, che si trova nella coscienza di ogni persona senziente. Considerando che è la legge di Dio che definisce la natura del peccato, siamo costretti ad affrontare le orribili conseguenze della nostra disobbedienza di questa legge. Quello di cui il peccatore ha bisogno per essere salvato dall'aspetto punitivo di questa legge, è quello che Solomon Stoddard chiamava “la virtù della Legge”. Siccome il peccato è definito come la mancanza di conformità alla Legge o trasgressione della stessa, il solo antidoto disponibile è l'obbedienza. Se possediamo tale obbedienza alla Legge di Dio, non ne rischiamo il giudizio.

Solomon Stoddard, il nonno di Jonathan Edwards, scrisse nel suo libro “La giustezza di Cristo” la seguente conclusione del valore della virtù della Legge: “A noi basta avere la giustezza della legge. Non siamo minacciati della nostra scarsità se possediamo quella giustezza. La sicurezza degli angeli in Paradiso è che essi hanno la giustezza della legge e per noi sarebbe sufficiente come sicurezza. Se avessimo la giustezza della legge, non saremmo soggetti alla sciagura. Non siamo minacciati dalla legge; la giustizia non è contro di noi; la condanna della legge non si regge su di noi; essa non ha niente da obbiettare contro la nostra salvezza. L'anima giusta nella legge non ne è minacciata. Quando la richiesta della legge trova risposta, essa non trova falle. Punisce solo per la non perfetta obbedienza. Inoltre, dove c'è la giustezza della legge, Dio dona la vita eterna. Queste persone sono eredi della vita, secondo la promessa della legge, Galati 3,12 'Chi metterà in pratica queste cose, vivrà grazie ad esse' ” (La giustezza di Cristo, p. 25).

La sola virtù che incontra le richieste della Legge è quella di Cristo. È solo con l'imputazione di questa virtù che il peccatore può possedere quella della Legge. Questo è critico per il nostro intelletto in questi giorni in cui l'imputazione della virtù di Cristo è sotto attacco. Se abbandoniamo la nozione della giustezza di Cristo, non abbiamo speranza in quanto la Legge non è mai negoziata da Dio. Da quando essa esiste, siamo esposti al suo giudizio a meno che il nostro peccato non sia celato dalla giustezza della Legge. La sola ricompensa che possiamo possedere di quella giustezza è quella che otteniamo per essere attivamente obbedienti a Cristo, il quale ha onorato tutta la Legge. E questa è l'attività riflessa dalla quale Egli ha compiuto la ricompensa che si ottiene per questa obbedienza. Egli fa questo non per se stesso ma per il Suo popolo. È il contesto della giustezza che Gli viene attribuita, il salvare dalla condanna della Legge, questo salvataggio dalla vendetta del peccato che è lo sfondo per la santificazione cristiana, nella quale dobbiamo mortificare quel peccato che rimane in noi, visto che Cristo è morto per i nostri peccati.