La pietà senza il dolore
Da Libri e Sermoni Biblici.
Di Greg Morse su Santificazione e Crescita
Traduzione di Cecilia Lolli
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La nobile compassione di Cristo
Un giorno Giuseppe disse: «Ma ricordati di me quando sarai felice; ti prego, usa benevolenza nei miei confronti, parlando di me al Faraone, e fammi uscire da questa casa» (Genesi 40:14). Nonostante il capocoppiere fosse rinchiuso in prigione, Giuseppe interpretò favorevolmente il suo sogno e tre giorni dopo fu ristabilito nel suo vecchio ruolo. «Parla di me al Faraone», chiese Giuseppe.
Dopo tre giorni, il capocoppiere fu fatto uscire dalla cella, come previsto. «È solo questione di tempo», pensò Giuseppe. Passarono altri tre giorni, poi cinque, poi una settimana. «Due interi anni» (Genesi 41:1). Niente da fare. Una volta ristabilito al suo vecchio ufficio, Il coppiere però non si ricordò di Giuseppe, ma lo dimenticò. (Genesi 40:23).
Quando pensi a Gesù risorto, lo immagini tale e quale al coppiere? Colui che è sceso nella nostra miseria e ha sofferto per i nostri peccati, per poi risorgere a vita eterna tre giorni dopo, ci ha forse dimenticati?
Forse ti aspetti attenzioni al suo ritorno, ma fino a quel momento lui godrà delle lodi degli angeli, terrà lo scettro saldo nella mano, immemore della nostra prigionia, e tu sospetterai che non ci sia più posto per te nel suo cuore.
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La pietà del Principe
William Gurnall (1616–1679) risponde con un'illustrazione commovente:
Supponiamo che il figlio di un re fugga da una città assediata, dove ha lasciato la moglie e i figli, che ama come la sua stessa vita, pronti a morire di guerra o di fame; se le provviste non arrivano in tempo, come potrà mai, questo principe, giunto alla dimora del padre, gioire delle delizie della corte e dimenticare l'angoscia della sua famiglia? (Il cristiano in armatura integrale, 31)
In questo esatto istante Gesù pensa a me, a te, come il principe alla sposa e al figlio che ha lasciato indietro. Lui non si è dimenticato di noi, coronato di gloria, proprio come nessun uomo buono potrebbe dimenticarsi della sua famiglia, in catene tra le lacrime in una nazione empia. Se noi, che siamo peccatori, siamo commossi dalle pene dei nostri cari, come potrebbe Gesù Cristo, il cui stesso nome è amore, ignorare le sofferenze della sua famiglia sulla terra?
Se sei spinto a sentirti dimenticato, ricorda che l'amore di Cristo per la sua sposa sopravanza ogni conoscenza. (Efesini 3:19). Il suo cuore è rivolto verso di noi, dall’alto dei cieli, e si merita molta più considerazione di quella che molti di noi offrono. Considera, per prima cosa, che Cristo risorto non assomiglia affatto alla figura del coppiere, considera che Cristo «gioisce delle delizie del cielo» senza dimenticare «il dolore della sua famiglia» – considera che questa è una buona notizia per noi.
Lui non ti ha dimenticato
Gesù, nostro Re, che è morto nella Gloria della risurrezione, ci ha lasciati qui sulla terra. A differenza del Principe raffigurato da Gurnall, Gesù prega affinché rimaniamo temporaneamente separati, «io non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno». (Giovanni 17:15). Per non farci trarre conclusioni errate, giunto alla vigilia della sua morte, Gesù disse in molti modi «voi non sarete dimenticati».
Rassicura, «e quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi». (Giovanni 14:3). Promette, «non vi lascerò orfani; tornerò a voi. […] poiché io vivo, anche voi vivrete». (Giovanni 14:18–19).
Saputo ciò, la tristezza colma I loro cuori, e lui assicura che è per il loro bene: «tuttavia io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma se me ne vado, io ve lo manderò». (Giovanni 16:7). Dà la sua parola, «così anche voi ora siete nel dolore, ma io vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno vi toglierà la vostra gioia». (Giovanni 16:22).
Nella notte più buia della Storia, Gesù Cristo porta il suo popolo nel cuore nella preghiera a Dio Padre: «Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche coloro che tu mi hai dato, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai dato, perché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo». (Giovanni 17:24). Questa preghiera che lui fa è per me e per te: «or io non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me per mezzo della loro parola». (Giovanni 17:20).
Queste parole non vengono da un coppiere divino. Possiamo dare per certo che colui che ha detto «come il Padre ha amato me, così io ho amato voi; dimorate nel mio amore» (Giovanni 15:9), la cui esistenza può essere riassunta nelle sue parole in punto di morte, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Giovanni 13:1), senza dubbio non dimenticherà la sua sposa, la consolazione al suo dolore e alla sua angoscia. Mai per davvero lui la abbandonerà. (Matteo 28:20).
Lui gioisce nel regno dei cieli
Basta dire che Gesù Cristo non dimenticherà i suoi amati, perché non ne è capace, neanche quando sono pronti ad arrendersi al pensiero di essere stati dimenticati. Questo è un problema.
E non è l’unico: possiamo pensare che Gesù Cristo pensi solo a noi. Lo spirito del nostro tempo ci porta a immaginare un Messia insicuro, codipendente, che fa dell’amore una malattia. Lui è lassù nei cieli, incurante della gloria che lo circonda, scarabocchia cuori ai margini del cosmo, il nostro nome nel mezzo.
Il nostro tempo tende a trascurare un’altra cosa che Gesù disse ai suoi discepoli, «avete udito che vi ho detto: io me ne vado e tornerò a voi. Se voi mi amaste, vi rallegrereste perché ho detto: io vado al Padre. Poiché il Padre è più grande di me». (Giovanni 14:28). Potremmo essere indotti a pensare che il suo mondo ruota intorno a noi, che nei cieli deve soffrire per l’eternità, incapace di rallegrarsi della vicinanza del Padre, di ricevere lodi, di gioire delle delizie del regno dei cieli, solo perché noi non siamo presenti.
Un giorno, lui le scrisse
Pensa alla lettera d’amore che lui mandò, dall’alto dei cieli, alla sua sposa, addolorata e abbandonata nell’antica Smirne, dove lei è la fedele congregazione locale (nella lettera non c’è traccia di giudizio né di richiamo al pentimento). Che cosa dice Gesù, mosso a compassione, alla comunità in lutto?
Dice, a Giovanni: «E all'angelo della chiesa in Smirne scrivi: queste cose dice il primo e l'ultimo, che morì e tornò in vita. Io conosco le tue opere, la tua tribolazione, la tua povertà (tuttavia tu sei ricco) e la calunnia di coloro che si dicono Giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana. Non temere ciò che dovrai soffrire. Ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in prigione per mettervi alla prova, e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: chi vince non sarà certamente colpito dalla seconda morte». (Apocalisse 2:8-11)
Che consolazione offre? Lui dice di essere il primo e l’ultimo, colui che morì e tornò in vita. Afferma di conoscere la loro tribolazione e povertà (tuttavia sono ricchi). Fa loro sapere di aver sentito la calunnia dei loro nemici, ormai diventati una “sinagoga di Satana”.
Nota ora come insegna loro a essere perseguitati: «Non temere ciò che dovrai soffrire» — Satana li getterà in prigione per metterli alla prova, finendo così per mettersi al servizio di scopi più nobili. Gesù dice loro di essere fedeli fino alla morte, e che lui li aspetterà nell’altro regno con la corona della vita. Dice loro che dovranno vincere per non essere colpiti dalla seconda morte, nello stagno di fuoco (Apocalisse 20:14).
Offre alla sua chiesa quella che sembrerebbe una consolazione virile, ovvero una consolazione che mantiene un tono di incoraggiamento, dovuto alla consapevolezza di priorità elevate (1 Tessalonicesi 2:11–12) — ovvero, la salvezza eterna della sua chiesa.
Le parole di Cristo non sono le stesse di una nutrice con i suoi bambini (1 Tessalonicesi 2:7), ma sono ugualmente piene di amore. Gesù consola lo stesso la sua chiesa, anche senza dirle che non potrà gioire del paradiso e del Padre, mentre lei rimane oppressa e isolata. Non rinuncia a sedersi sul trono prima che lei sieda al sicuro nella gloria.
Commosso, ma non offeso
Per noi Gesù si preoccupa profondamente, ma non troppo — è questo che intendo? No. La sua preoccupazione per la sua sposa è più profonda di quanto crediamo, e lui è pur sempre il nostro Dio che vive nel regno dei cieli, che è più grande di tutti noi. Ci ama più di quanto possiamo immaginare, eppure non ha un bisogno assoluto di noi. La bellezza del suo amore passa anche da quanto è spontaneo e non richiesto.
Il nostro gran sommo sacerdote, Cristo, ci invita ad avvicinarci al trono della grazia, poiché sa come essere solidale con noi (Ebrei 4:14–16). Ma non si lascia divorare dalla pietà, e nemmeno partecipa al nostro dolore per rendere sopportabile l’offesa. Condivide le nostre persecuzioni come il capo del corpo — «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (Atti 9:4) — ma non come se le ferite fossero appena state inflitte.
Thomas Goodwin (1600–1680) ne parla a modo suo ne Il cuore di Cristo:
Questi sentimenti di pietà e simpatia che lui stesso suscita, anche se loro… toccano il suo cuore come ancora sulla terra, ma non lo affliggono e non lo turbano minimamente, né diventano un peso per il suo Spirito, tanto da appesantirlo o addolorarlo, così come è accaduto in questa vita per la sua pietà per Lazzaro, in ultimo per le sue angosce, che lo hanno reso addolorato fino alla morte. (47)
Gesù Cristo, un tempo uomo addolorato, è risorto e salito al cielo; non si è abbattuto, nel regno dei cieli, poiché la sua sposa non è ancora lì. Goodwin afferma che il Cristo glorificato non ha «alcuna sensazione di inquietudine» o «afflizione», sebbene «la sua perfezione non distrugga i suoi affetti». Egli è spinto ad aiutarci; si avvicina, commosso dal nostro dolore, pur non essendo rimasto offeso.
Lui già vede quel giorno
Questa è una buona notizia, poiché Cristo ama il suo popolo, senza per questo annullare ogni elemento di realtà, senza amarci più del Padre e della sua gloria. Il Figlio ci invita nel suo amore eterno e trinitario, senza farci il fulcro primario di quell'amore eterno. Egli ci ama, ma senza farci uguali a Dio.
Gesù è il Pastore del nostro gregge, lo Sposo della sua sposa, e ci guida verso casa, attraverso un mondo di dolore, alle vive fonti delle acque, nella promessa di asciugare presto ogni lacrima dai nostri occhi. (Apocalisse 7:17; 21:4). Nella sua nuova dimora, lui gioisce davvero «delle delizie del regno dei cieli» e al tempo stesso non dimentica «il dolore della sua famiglia».