Questa grande salvezza/La santità di Dio

Da Libri e Sermoni Biblici.

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Quella sera ero arrivato all’assemblea di umore esuberante, così quando un caro amico entrò, gli urlai dal fondo della stanza: “Vieni qui, in nome di Cristo!”.
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Quella sera ero arrivato all’assemblea di umore esuberante, così quando un caro amico entrò, gli urlai dal fondo della stanza: “Vieni qui, in nome di Cristo!”.  
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Poco più tardi, un giovane mi prese discretamente da parte e mi espresse il suo turbamento nel sentir nominare il nome di Gesù così sventatamente.
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Rosso di vergogna mormorai: “Grazie di avermelo fatto notare”.  Era evidente che il giovane era preoccupato per me personalmente. Sapevo anche che aveva ragione e che aveva dimostrato più riguardo per l’onore di Dio di quanto avessi fatto io. Sebbene non intendessi fare del male, mi resi conto da quell’accaduto di essermi permesso fin troppa familiarità con il nome del Signore.
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Non era cominciata così. All’epoca della mia conversione tre anni addietro, avevo sentito quanto fosse travolgente il potere di Dio nel cambiare la mia vita.
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Le assemblee erano pervase della sua presenza, e le sorprendenti risposte alle mie preghiere mi avevano persuaso della realtà dello Spirito Santo e dell’amore di Gesù Cristo. Chi altri avrebbe potuto farmi superare definitivamente la depressione e la disperazione che mi avevano attanagliato tanto a lungo? Tuttavia, mentre l’intensità di quei primi mesi gradualmente si placava in una fede più concreta, qualcos’altro si stava lentamente insinuando. La maestosa grandezza di Dio veniva pian piano sgretolata da una crescente familiarità. Era ormai tempo di riconsiderare la santità di Dio.
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Santità. La parola in sé evoca immagini di cupi monaci che abitano in freddi monasteri, si nutrono di cibi insipidi e vivono vite senza gioia; oppure facce lunghe, abiti castigati e lunghe liste di cose che non si devono fare. Ma che ne è della bellezza? La parola santità fa scaturire forse pensieri di bellezza? Probabilmente no. Eppure la bellezza è una qualità spesso associata alla santità divina. Nei Salmi siamo esortati ad adorare il Signore “nello splendore della santità” (Salmi 29,2; 96,9 AV). La santità fa risplendere il tempio di Dio nell’eternità: “I tuoi statuti sono stabili. La santità si addice alla tua casa, o Signore, per sempre” (Salmi 93,5).
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Poco più tardi, un giovane mi prese discretamente da parte e mi espresse il suo turbamento nel sentir nominare il nome di Gesù così sventatamente.  
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Malgrado l’accezione chiara e positiva della Bibbia verso la santità, per la maggior parte di noi essa coincide con “travaglio, fatica”. Al solo menzionarne la parola, la nostra mente vede quel che percepiamo come le nostre responsabilità di cristiani. Tuttavia, una qualsivoglia precisa comprensione della santità deve risalire alla sorgente di ogni santità – Iddio stesso. E allorché vediamo la santità divina, non abbiamo più a che fare con le responsabilità dell’uomo, bensì con quell’attributo divino che più ci affascina e ci ispira reverenza.
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Il teologo Stephen Charnock fa notare come tra le svariate qualità divine preferiamo quelle che ci apportano un immediato vantaggio, per esempio preferiamo lodare la misericordia di Dio, piuttosto che pensare alla sua ira e giustizia. Siamo più propensi a riflettere su un Salvatore pieno d’amore che a considerare un Dio geloso.
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Rosso di vergogna mormorai: “Grazie di avermelo fatto notare”. Era evidente che il giovane era preoccupato per me personalmente. Sapevo anche che aveva ragione e che aveva dimostrato più riguardo per l’onore di Dio di quanto avessi fatto io. Sebbene non intendessi fare del male, mi resi conto da quell’accaduto di essermi permesso fin troppa familiarità con il nome del Signore.  
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Vi sono alcuni attributi divini però di cui Dio stesso gioisce, perché essi esprimono perfettamente la sua propria eccellenza. La santità è uno di questi [1].
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Non era cominciata così. All’epoca della mia conversione tre anni addietro, avevo sentito quanto fosse travolgente il potere di Dio nel cambiare la mia vita.
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Quei misteriosi esseri celesti, i serafini e le quattro creature viventi, sanno che la santità divina deve essere messa ben in rilievo. Pensateci. Essi dimorano nella sua presenza e hanno una visione della realtà del tutto libera da intralci (mentre noi la vediamo confusamente attraverso un vetro). Semmai qualcuno sa, sono loro. E così, continuamente, giorno e notte, mai cessano di proclamare: “Santo, santo, santo è Iddio Signore Onnipotente” (Isaia 6,3; Rivelazioni 4,8).
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Le assemblee erano pervase della sua presenza, e le sorprendenti risposte alle mie preghiere mi avevano persuaso della realtà dello Spirito Santo e dell’amore di Gesù Cristo. Chi altri avrebbe potuto farmi superare definitivamente la depressione e la disperazione che mi avevano attanagliato tanto a lungo? Tuttavia, mentre l’intensità di quei primi mesi gradualmente si placava in una fede più concreta, qualcos’altro si stava lentamente insinuando. La maestosa grandezza di Dio veniva pian piano sgretolata da una crescente familiarità. Era ormai tempo di riconsiderare la santità di Dio.  
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La santità differisce dalle altre perfezioni di Dio poiché si diffonde su tutti gli altri attributi. Dunque il suo amore è un amore santo, la sua giustizia è una giustizia santa, e così via. Se pensiamo agli attributi divini come alle varie sfaccettature di un diamante, la santità sarebbe allora lo splendore combinato di tutte queste, rifulgenti in sfolgorante gloria.
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Santità. La parola in sé evoca immagini di cupi monaci che abitano in freddi monasteri, si nutrono di cibi insipidi e vivono vite senza gioia; oppure facce lunghe, abiti castigati e lunghe liste di cose che non si devono fare. Ma che ne è della bellezza? La parola santità fa scaturire forse pensieri di bellezza? Probabilmente no. Eppure la bellezza è una qualità spesso associata alla santità divina. Nei Salmi siamo esortati ad adorare il Signore “nello splendore della santità” (Salmi 29,2; 96,9 AV). La santità fa risplendere il tempio di Dio nell’eternità: “I tuoi statuti sono stabili. La santità si addice alla tua casa, o Signore, per sempre” (Salmi 93,5).  
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Superstizioni religiose
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Malgrado l’accezione chiara e positiva della Bibbia verso la santità, per la maggior parte di noi essa coincide con “travaglio, fatica”. Al solo menzionarne la parola, la nostra mente vede quel che percepiamo come le nostre responsabilità di cristiani. Tuttavia, una qualsivoglia precisa comprensione della santità deve risalire alla sorgente di ogni santità – Iddio stesso. E allorché vediamo la santità divina, non abbiamo più a che fare con le responsabilità dell’uomo, bensì con quell’attributo divino che più ci affascina e ci ispira reverenza.
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Le Scritture hanno molto da dire riguardo alla santità. Il primo libro della Bibbia, il Genesi, descrive la caduta dell’uomo; l’Esodo poi, con la sua immagine centrale dell’agnello di Pesach, ne illustra la redenzione. Segue il Levitico… ah! Il Levitico, libro in cui così tanti aspiranti studiosi della Bibbia si sono impantanati nei loro annuali tentativi di lettura approfondita, senza più riemergerne. Eppure, questo è un libro cruciale se vogliamo comprendere la santità. Il Levitico inoltre illumina il fondamentale sacrificio espiatorio di nostro Signore Gesù Cristo.
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Il teologo Stephen Charnock fa notare come tra le svariate qualità divine preferiamo quelle che ci apportano un immediato vantaggio, per esempio preferiamo lodare la misericordia di Dio, piuttosto che pensare alla sua ira e giustizia. Siamo più propensi a riflettere su un Salvatore pieno d’amore che a considerare un Dio geloso. Vi sono alcuni attributi divini però di cui Dio stesso gioisce, perché essi esprimono perfettamente la sua propria eccellenza. La santità è uno di questi<ref>Stephen Charnock, The Existence and Attributes of God, Vol. II (Grand Rapids, MI: Baker Book House, 1979 reprint), p. 112.</ref>.  
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Nel Levitico Dio mostra all’uomo come rivolgersi a lui in adorazione; il libro si concentra principalmente sui diversi sacrifici che Dio ha richiesto alla sua gente affinché questa sappia come trattare con lui, e quindi le diverse feste che Dio ha decretato affinché questa rimanga in buoni termini con lui[3]. Per quanto complicato e irrilevante tale elaborato sistema di sacrifici possa sembrarci oggi, Dio lo aveva istituito affinché la sua gente capisse la profonda verità che egli è santo.
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La parola santità implica una separazione netta da tutto ciò che è impuro [4]. Dio è diverso da noi. Egli è altri da noi. Sebbene ciò sembri un concetto elementare, è necessario ribadirlo di contro alle attuali concezioni di presunti poteri “New Age” dentro di noi, e di una presunta divinità inerente all’umanità.
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Nelle Scritture, quando Dio tocca qualcosa di comune, questo diviene straordinario. Per esempio, poiché fu il luogo della rivelazione divina, la zona attorno al roveto ardente venne marcata come terreno santificato, e Mosè ritenne opportuno levarsi i sandali per rispetto verso Dio. Oppure si considerino gli strumenti usati nel tabernacolo e nel tempio: non erano ordinari, bensì santificati. E così vi erano assemblee sante, altari santi, sante unzioni e giorni santi.
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<br> Quei misteriosi esseri celesti, i serafini e le quattro creature viventi, sanno che la santità divina deve essere messa ben in rilievo. Pensateci. Essi dimorano nella sua presenza e hanno una visione della realtà del tutto libera da intralci (mentre noi la vediamo confusamente attraverso un vetro). Semmai qualcuno sa, sono loro. E così, continuamente, giorno e notte, mai cessano di proclamare: “Santo, santo, santo è Iddio Signore Onnipotente” (Isaia 6,3; Rivelazioni 4,8).  
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Che cosa li santificava? Un Dio santo. Egli sceglieva cose ordinarie e le rendeva speciali adoperandole a scopi sacri, specificatamente per comunicare alla sua gente di essere santo.
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Purtroppo però, molti non capiscono questo punto e piombano nella superstizione religiosa. Una volta in tarda serata fui chiamato al telefono da un’anziana signora che mi chiese di incontrarla per la preghiera, insistendo che non poteva aspettare e che avremmo dovuto incontrarci nella “casa del Signore”. Le suggerii che, data l’ora, un luogo pubblico sarebbe stato più adatto di una chiesa deserta, ma questa continuava a insistere di vederci nella “casa del Signore”. La cara signora era caduta nell’errore di ascrivere a un luogo una determinata speciale qualità che appartiene a Dio soltanto. Non capiva che, in quest’epoca del Nuovo Testamento, nessun luogo è santo di per sé, neppure la “Terra Santa”.
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La santità differisce dalle altre perfezioni di Dio poiché si diffonde su tutti gli altri attributi. Dunque il suo amore è un amore santo, la sua giustizia è una giustizia santa, e così via. Se pensiamo agli attributi divini come alle varie sfaccettature di un diamante, la santità sarebbe allora lo splendore combinato di tutte queste, rifulgenti in sfolgorante gloria.  
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Il profeta Geremia, consapevole di una simile attitudine tra la sua gente, scrisse: “Non ponete la vostra fiducia in parole ingannatrici, dicendo: ‘Questo è il tempio dell’Eterno, il tempio dell’Eterno, il tempio dell’Eterno!‘ (Geremia 7,4)”.
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'''Superstizioni religiose'''
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Malgrado la loro reverenza per la struttura fisica del tempio, gli Israeliti che continuavano a ripetere “Il tempio dell’Eterno” avevano purtroppo distolto il loro cuore dal Signore del tempio.
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Vedo accadere lo stesso quando coppie non redente, che non nutrono alcun interesse nel seguire Gesù Cristo, considerano nondimeno assolutamente essenziale sposarsi in chiesa. Che altro è se non superstizione questo credere che il loro matrimonio sarà in qualche modo benedetto, se celebrato in un edificio “sacro”? Ritenere importanti i luoghi o le ceremonie o gli artefatti religiosi non dimostra in alcun modo onore e rispetto per il Signore.
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Le Scritture hanno molto da dire riguardo alla santità. Il primo libro della Bibbia, il Genesi, descrive la caduta dell’uomo; l’Esodo poi, con la sua immagine centrale dell’agnello di Pesach, ne illustra la redenzione. Segue il Levitico… ah! Il Levitico, libro in cui così tanti aspiranti studiosi della Bibbia si sono impantanati nei loro annuali tentativi di lettura approfondita, senza più riemergerne. Eppure, questo è un libro cruciale se vogliamo comprendere la santità. Il Levitico inoltre illumina il fondamentale sacrificio espiatorio di nostro Signore Gesù Cristo.  
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Dio, nelle Scritture, ha destinato certe cose a usi speciali, ma con uno scopo ben chiaro, quello cioè di insegnarci che egli è santo ed è a lui che si deve rispetto. Per questa ragione dunque usare cose sacre in maniera profana o ordinaria era ritentuo offensivo verso Iddio.
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Il quinto capitolo di Daniele narra la famosa storia della scritta sul muro, allorché Dio vi iscrisse il giudizio divino contro il re di Babilonia. Che cosa suscitò la sua ira? Belshazzar aveva profanato ciò che Dio giudicava sacro, come racconta Daniele: “Così essi presero i calici d’oro sottratti dal tempio di Dio in Gerusalemme, e il re e i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine bevvero da essi. E mentre bevevano, levavano lodi per gli dei d’oro e d’argento, di bronzo, ferro, legno e pietra” (Daniele 5,3-4).
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Nel Levitico Dio mostra all’uomo come rivolgersi a lui in adorazione; il libro si concentra principalmente sui diversi sacrifici che Dio ha richiesto alla sua gente affinché questa sappia come ''trattare'' con lui, e quindi le diverse feste che Dio ha decretato affinché questa ''rimanga in buoni termini'' con lui<ref>Henrietta Mears, What the Bible Is All About (Ventura, CA: Regal Books, 1983), p. 51.</ref>. Per quanto complicato e irrilevante tale elaborato sistema di sacrifici possa sembrarci oggi, Dio lo aveva istituito affinché la sua gente capisse la profonda verità che ''egli è santo''.  
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Quando Daniele fu chiamato a decifrare la scritta misteriosa, ne approfittò per ammonire il re. Le sue parole conclusive riassumevano il peccato di Belshazzar: “Tu non hai glorificato il Dio, nella cui mano è il tuo soffio vitale e a cui appartengono tutte le tue vie” (Daniele 5,23).
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Il fallimento di Belshazzar nell’onorare le cose di Dio significò il suo fallimento nell’onorare Iddio; la sua basfemia gli costò la vita. Eventi come questo sono sparsi per tutta la Bibbia come avvertimento di ciò che può accadere quando si decide di giocare sconsideratamente con le cose divine. Il giudizio divino si muoverà per i peccati contro la santità di Dio, non importa se subito o alla fine dei tempi.
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Il “fattore di disintegrazione”
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La parola santità implica una separazione netta da tutto ciò che è impuro<ref>Ibid., p. 58.</ref>. Dio è diverso da noi. Egli è ''altri'' da noi. Sebbene ciò sembri un concetto elementare, è necessario ribadirlo di contro alle attuali concezioni di presunti poteri “New Age” dentro di noi, e di una presunta divinità inerente all’umanità.
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Dio è così diverso da noi. Sebbene creati a sua immagine, i suoi pensieri e le sue vie sono così ben oltre i nostri che Isaia li paragona alla distanza tra cielo e terra (Isaia 55, 8-9). Forse ciò è tanto più chiaro per quanto concerne la sua eccellenza morale. Come fu detto dal profeta Abacuc: “I tuoi occhi sono troppo puri per guardare il male; tu non puoi tollerare il torto” (Abacuc, 1,13).
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Nelle Scritture, quando Dio tocca qualcosa di comune, questo diviene straordinario. Per esempio, poiché fu il luogo della rivelazione divina, la zona attorno al roveto ardente venne marcata come terreno santificato, e Mosè ritenne opportuno levarsi i sandali per rispetto verso Dio. Oppure si considerino gli strumenti usati nel tabernacolo e nel tempio: non erano ordinari, bensì santificati. E così vi erano assemblee sante, altari santi, sante unzioni e giorni santi.
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L’assoluta purezza di Dio va ben oltre la mera mancanza di peccaminosità. Essa è una positiva espressione della sua bontà, e non soltanto l’assenza del peccato. Abbiamo tutti conosciuto persone il cui carattere risplende tanto più luminosamente del nostro da farci sentire meschini e impuri al loro confronto. Ho un amico che, prima di radersi completamente la barba, somigliava a una combinazione di Abraham Lincoln  e Gesù (cioè come ce li si rappresenta adesso). La somiglianza non si limita all’apparenza fisica, anzi la sua gentilezza e il suo sapere sono davvero eccezionali. Anche se la cosa lo imbarazzerebbe se lo sapesse, quando sono con lui mi rendo conto del mio egoismo. Se compararci a un altro essere umano può farci sentire così, immaginate l’estremo disagio che proveremmo alla presenza di Dio!
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Questo è proprio quel che successe a Pietro. Gesù stupì Pietro un giorno con una pesca miracolosa di pesce. Ma invece che gioirne, Pietro vedeva soltanto la propria peccaminosità. Confrontato con la santità di Gesù, egli si vide com’era davvero, e tale realtà gli fu insopportabile. “Simon Pietro… s’inginocchiò davanti a Gesù e proferì: ‘Allontanati da me, o Signore, sono un peccatore!‘ (Luca 5,8)”.
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Che cosa li santificava? Un Dio santo. Egli sceglieva cose ordinarie e le rendeva speciali adoperandole a scopi sacri, specificatamente per comunicare alla sua gente di ''essere santo''.  
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Non passò molto tempo però che Pietro sembrò dimenticare la santità del Signore, come vediamo quattro capitoli più avanti sul monte della trasfigurazione. Questo evento esemplare vide la visita di due tra le più celebrate figure del passato d’Israele, Mosè ed Elia, e nel momento culminante, un Gesù trasfigurato divenne bagliore sfolgorante di luce. Eppure Pietro, invece di prostrarsi davanti al Signore come nell’episodio precedente, pareva inconsapevole di quanto si stava svolgendo, e suggerì chiassosamente che forse avrebbero potuto costruire dei rifugi temporanei per tutti. In quel momento, Dio Padre intervenne personalmente. “Mentre [Pietro] parlava, apparve una nuvola che tutti li ricoprì, ed essi erano timorosi nell’entrare dentro la nuvola. Ne uscì una voce che esclamò: ‘Questi è mio Figlio, che io ho prescelto; ascoltatelo‘ (Luca 9,34-35)”. Ciò sembrò avere un effetto raggelante su Pietro e gli altri, come illustra Matteo: “Quando i discepoli udirono questo, essi caddero faccia a terra, atterriti” (Matteo 17,6).
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Il profeta Isaia visse una drammatica esperienza che lo segnò per sempre. Gli apparve una visione del Signore “assiso sopra un trono alto ed elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio” (Isaia 6,1). In questa visione, esseri angelici dichiaravano la traboccante santità di Dio: “Al suono delle loro voci gli stipiti della porta ne furono scossi e il tempio si riempì di fumo” (v.4). Sconvolto da questa formidabile visione, Isaia rispose nel solo modo adatto: “Ahimé! Io sono perduto perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il Re, l’Eterno degli eserciti!” (v.5).
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Purtroppo però, molti non capiscono questo punto e piombano nella superstizione religiosa. Una volta in tarda serata fui chiamato al telefono da un’anziana signora che mi chiese di incontrarla per la preghiera, insistendo che non poteva aspettare e che avremmo dovuto incontrarci nella “casa del Signore”. Le suggerii che, data l’ora, un luogo pubblico sarebbe stato più adatto di una chiesa deserta, ma questa continuava a insistere di vederci nella “casa del Signore”. La cara signora era caduta nell’errore di ascrivere a un luogo una determinata speciale qualità che appartiene a Dio soltanto. Non capiva che, in quest’epoca del Nuovo Testamento, nessun luogo è santo di per sé, neppure la “Terra Santa”.  
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Qualcuno ha definito l’esperienza di Isaia il “fattore di disintegrazione”.
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Il profeta Geremia, consapevole di una simile attitudine tra la sua gente, scrisse: “Non ponete la vostra fiducia in parole ingannatrici, dicendo: ‘Questo è il tempio dell’Eterno, il tempio dell’Eterno, il tempio dell’Eterno!‘ (Geremia 7,4)”.  
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R.C.Sproul scrive: “Per la prima volta nella sua vita, Isaia capì realmente chi fosse Dio. Al tempo stesso, per la prima volta Isaia capì realmente chi fosse Isaia” [7].
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Se la parola integrità significa interezza (intera come un numero primo), la disintegrazione significa andare in frantumi. Molti di noi tentano in ogni modo di vivere la propria vita “nel suo intero”, e persino quando ci sentiamo del tutto perduti, cerchiamo almeno di sembrare “integri”. Com’è sconvolgente quindi essere alla presenza di Dio, e smarrirsi completamente nello scoprire la profondità della nostra condizione di peccatori.
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Malgrado la loro reverenza per la struttura fisica del tempio, gli Israeliti che continuavano a ripetere “Il tempio dell’Eterno” avevano purtroppo distolto il loro cuore dal Signore del tempio.
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Avvicinarsi a un Dio di santità
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Vedo accadere lo stesso quando coppie non redente, che non nutrono alcun interesse nel seguire Gesù Cristo, considerano nondimeno assolutamente essenziale sposarsi in chiesa. Che altro è se non superstizione questo credere che il loro matrimonio sarà in qualche modo benedetto, se celebrato in un edificio “sacro”? Ritenere importanti i luoghi o le ceremonie o gli artefatti religiosi non dimostra in alcun modo onore e rispetto per il Signore.
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La consapevolezza della propria condizione di peccatori è all’inizio causa sdi avversione verso Dio. In quasi tutti i racconti biblici di visitazioni angeliche, la gente cade preda di terribile spavento.
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Dio, nelle Scritture, ha destinato certe cose a usi speciali, ma con uno scopo ben chiaro, quello cioè di insegnarci che egli è santo ed è a lui che si deve rispetto. Per questa ragione dunque usare cose sacre in maniera profana o ordinaria era ritentuo offensivo verso Iddio.  
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Quanto più dunque chi vede Iddio nella sua meravigliosa santità? Gli Israeliti che stavano davanti al monte Sinai mentre questo veniva scosso dalla santa presenza di Dio, implorarono Mosè di essere il loro intermediario, il loro tramite. Mosè rammentò loro questo: “Allorché udiste una voce provenire dalle tenebre, mentre la montagna ardeva nel fuoco, tutti i capi delle vostre tribù e i vostri anziani vennero a me. E voi diceste: ‘Il Signore nostro Dio ha mostrato la sua gloria e la sua maestà, e abbiamo udito la sua voce dal fuoco. Oggi abbiamo visto che un uomo può restare vivo persino dopo che Dio gli ha parlato. Ma adesso, perché dovremmo morire? Questo gran fuoco ci consumerà, e moriremo se ancora udremo la voce del Signore Dio nostro. Perché quale mai uomo mortale ha udito la voce del Dio vivente parlare dal fuoco, come noi, ed è sopravvissuto? Avvicinati e ascolta tutto quel che il Signore Dio nostro dice. Raccontaci poi quel che il Signore Dio nostro ti ha detto. Noi ascolteremo e obbediremo‘” (Deuteronomio 5,23-27).
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Una volta sentii John Wimber parlare di coloro che non vogliono una relazione con Dio poiché la considerano troppo pericolosa, ma preferirebbero intrattenerla con la Cristianità o con la chiesa. Anche se questo è sicuramente il caso per alcuni, un vero cristiano nutre il desiderio di santità. Egli sa che soltanto i puri di cuore vedranno Iddio (Matteo 5,8), e aspira a quella purezza che lo renderà capace di rimirare il suo Signore. Il cristiano che sta maturando si sente rassicurato dell’amore di Dio dalla consapevolezza della santità divina. Egli capisce che, nonostante la santità di Dio e la propria condizione di peccato, il Signore ha lungamente sofferto per lui; egli merita il giudizio, ma invece riceve la misericordia che si rinnova ogni giorno.
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Il quinto capitolo di Daniele narra la famosa storia della scritta sul muro, allorché Dio vi iscrisse il giudizio divino contro il re di Babilonia. Che cosa suscitò la sua ira? Belshazzar aveva profanato ciò che Dio giudicava sacro, come racconta Daniele: “Così essi presero i calici d’oro sottratti dal tempio di Dio in Gerusalemme, e il re e i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine bevvero da essi. E mentre bevevano, levavano lodi per gli dei d’oro e d’argento, di bronzo, ferro, legno e pietra” (Daniele 5,3-4).  
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Possiamo considerare i nostri tentativi di vivere una vita cristiana piuttosto fiacchi, ma se abbiamo il desiderio di santità possiamo rincuorarci. Dio è colui che ha acceso quel desiderio ed è sicuro che accadrà. Ma come? Come obbediremo al verosimilmente impossibile comandamento di Dio “Sii santo, poiché Io sono santo” (1 Pietro 1,16)? Come possiamo avvicinare “il beato e unico Sovrano, il Re dei re e il Signore dei signori che solo è immortale e abita una luce inaccessibile, che nessun uomo ha mai visto, né può vedere” (1 Timoteo 6,15-16; corsivo dell’autore)?
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Quando Daniele fu chiamato a decifrare la scritta misteriosa, ne approfittò per ammonire il re. Le sue parole conclusive riassumevano il peccato di Belshazzar: “Tu non hai glorificato il Dio, nella cui mano è il tuo soffio vitale e a cui appartengono tutte le tue vie” (Daniele 5,23).  
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Dobbiamo avvicinarci con timore reverenziale, così com’è potentemente illustrato dal ministero del sacerdote dell’Antico Testamento. Avvicinarsi a Dio per il sacerdote esigeva regolamenti strettamente codificati. Non si poteva entrare nel Sancta Sanctorum a proprio piacimento. L’Alto Sacerdote entrava nel luogo più santo soltanto una volta all’anno nel giorno dell’Espiazione. Doveva dapprima offrire un sacrificio per se stesso, in cui il sangue faceva da memento della sua condizione di peccatore e della santità di Dio, dopodiché doveva indossare speciali paramenti. Sull’orlo della veste si alternavano melograni e campanelli che suonavano per provare che era ancora vivo, che la santità divina non lo aveva ucciso. Secondo la tradizione, egli aveva una corda attorno a sé cosicché, qualora fosse morto alla presenza di Dio, gli altri sacerdoti avrebbero potuto trascinarlo fuori senza dover entrare loro stessi.
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Tali elaborate precauzioni suonavano come un chiaro avvertimento: con la santità di Dio non si scherza. I figli di Aronne, Nadab e Abihu, impararono la lezione con le maniere forti. Quando questi sacerdoti provarono un nuovo modo di bruciare incenso davanti al Signore, “una fiamma provenne dalla presenza del Signore e li consumò, ed essi morirono davanti a lui” (Levitico 10,2). Inutile a dirsi, quella fu l’ultima volta che vennero provate delle innovazioni.
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Il fallimento di Belshazzar nell’onorare le cose di Dio significò il suo fallimento nell’onorare Iddio; la sua basfemia gli costò la vita. Eventi come questo sono sparsi per tutta la Bibbia come avvertimento di ciò che può accadere quando si decide di giocare sconsideratamente con le cose divine. Il giudizio divino si muoverà per i peccati contro la santità di Dio, non importa se subito o alla fine dei tempi.  
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Nella costernazione del momento, Mosè ricordò ad Aronne le parole del Signore: “Tra quelli che mi avvicinano mi mostrerò santo; davanti a tutte le genti sarò onorato” (Levitico 10,4). Nessun passaggio riflette meglio la rivelazione centrale dell’Antico Testamento, così com’è riassunta da Salomone: “Il timore di Dio è l’inizio della conoscenza” (Proverbi 1,7).
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Il timore reverenziale è fondamentale, ma non potremmo nemmeno lontanamente avvicinare la santa presenza di Dio se non fosse per il nostro mediatore, Gesù Cristo. Un mediatore è quegli che fa da ponte tra due parti opposte. Il nostro peccato ci ha alienato Dio e lo ha reso adirato. Ciononostante, egli non ha smesso di amarci. La sua santità non lo ha in alcun modo reso riluttante nell’inviarci suo Figlio a remissione dei nostri peccati, così che saremo ammessi alla sua presenza in Cristo e ne gioiremo per l’eternità. Come Paolo spiegò ai Corinzi: “Dio si sta riconciliando con il mondo in Cristo” (2 Corinzi 5,19). Gesù Cristo, in quanto nostro mediatore, soffrì il castigo per la nostra disobbedienza affinché la riconciliazione fosse possibile. Ma la salvezza era il desiderio collettivo e lo sforzo cooperativo di Padre, Figlio e Spirito Santo.
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Il “fattore di disintegrazione”
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Un’altra osservazione finale sul sacerdozio nell’Antico Testamento. Mediare tra Dio e il popolo era responsabilità del sacerdote. Su ciascuna spalla dell’abito dell’Alto Sacerdote vi era una pietra d’onice su cui erano incisi i nomi delle sei tribù delle nazioni d’Israele. Sul petto della veste erano cucite dodici diverse pietre, una per ciascuna delle dodici tribù. Entrando nel Sancta Sanctorum, egli portava simbolicamente il popolo di Dio sulle spalle e sul cuore. All’epoca del Nuovo Testamento, Gesù è naturalmente il nostro Alto Sacerdote. Tanto è grande il suo amore per noi, che anche egli ci porta sulle spalle, sopportando il nostro fardello e, come amico compassionevole, ci tiene vicini al suo cuore.
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Sapere che Gesù è il nostro mediatore ci rende in grado di vedere Dio non soltanto come un fuoco che consuma, ma come un Padre con cui ci siamo riconciliati [12]. Dovremmo metterci d’impegno per conoscere e apprezzare questo vitale ministero di nostro Signore Gesù. Comprendere il significato del suo sacerdozio sfocerà in una sincera gratitudine e in una maggior consapevolezza di tutto quel che Dio ha fatto per noi.
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Nostra in partecipazione
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Dio è così diverso da noi. Sebbene creati a sua immagine, i suoi pensieri e le sue vie sono così ben oltre i nostri che Isaia li paragona alla distanza tra cielo e terra (Isaia 55, 8-9). Forse ciò è tanto più chiaro per quanto concerne la sua eccellenza morale. Come fu detto dal profeta Abacuc: “I tuoi occhi sono troppo puri per guardare il male; tu non puoi tollerare il torto” (Abacuc, 1,13).
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Una delle più sorprendenti promesse di tutte le Scritture, è l’assicurazione che condivideremo la santità di Dio: “I nostri padri ci corressero per pochi giorni, come sembrava loro bene; ma Dio ci corregge per il nostro bene affinché siamo partecipi della sua santità” (Ebrei 12,10).
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L’assoluta purezza di Dio va ben oltre la mera mancanza di peccaminosità. Essa è una positiva espressione della sua bontà, e non soltanto l’assenza del peccato. Abbiamo tutti conosciuto persone il cui carattere risplende tanto più luminosamente del nostro da farci sentire meschini e impuri al loro confronto. Ho un amico che, prima di radersi completamente la barba, somigliava a una combinazione di Abraham Lincoln e Gesù (cioè come ce li si rappresenta adesso). La somiglianza non si limita all’apparenza fisica, anzi la sua gentilezza e il suo sapere sono davvero eccezionali. Anche se la cosa lo imbarazzerebbe se lo sapesse, quando sono con lui mi rendo conto del mio egoismo. Se compararci a un altro essere umano può farci sentire così, immaginate l’estremo disagio che proveremmo alla presenza di Dio!
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Quando consideriamo con serietà la santità di nostro Signore, ci sembra incredibile che potremmo sperimentarne in una certa qual misura, eppure è proprio ciò che quel passaggio da Ebrei afferma chiaramente. Così com’è sicuro che Dio corregge i propri figli (e non vi sono dubbi a riguardo), noi gioiremo di parte della sua santità.
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Che tale promessa includa la correzione non deve scoraggiarci. La correzione è il metodo provato di Dio per rendere perfetti i propri figli, e come tale richiede la nostra partecipazione attiva. Il XII capitolo di Ebrei ci spinge a uno sforzo vigoroso da parte nostra. Notate il linguaggio esortativo che l’autore usa: “Deponiamo ogni peso e il peccato che ci sta sempre attorno allettandoci” (v.1)… “Corriamo con perseveranza la gara che ci è posta davanti” (v.1)… “Combattendo contro il peccato” (v.4)… “Sostenete la correzione” (v.7)… “Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia vacillanti” (v.12)… “Cercate la pace con tutti e la santificazione; senza la quale nessuno vedrà il Signore” (v.14; corsivo dell’autore).
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La correzione del nostro Padre potrà essere temporaneamente penosa, ma ci formerà per trascorrere l’eternità nella santità di Dio.
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Giacobbe era un uomo che certamente ebbe la sua parte di sventure, molte delle quali autoinflitte, ma alla fine della sua vita non era più Giacobbe. Il suo nome divenne Israele. Nel corso della sua esistenza erano intervenuti un cambiamento di nome e anche uno di carattere. Camminava zoppo, appoggiato al suo bastone, e adorò Dio in quanto Santo (Ebrei 11,21).
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Geremia disse: “È una grazia dell’Eterno che non siamo interamente distrutti” (Lamentazioni 3,22; Bibbia di re Giacomo). Non meritiamo un trattamento migliore di quel che ricevettero Nadab e Abihu. Ma ben lungi dal venire arsi, ci ritroviamo oggetto d’amore divino.
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Questo è proprio quel che successe a Pietro. Gesù stupì Pietro un giorno con una pesca miracolosa di pesce. Ma invece che gioirne, Pietro vedeva soltanto la propria peccaminosità. Confrontato con la santità di Gesù, egli si vide com’era davvero, e tale realtà gli fu insopportabile. “Simon Pietro… s’inginocchiò davanti a Gesù e proferì: ‘Allontanati da me, o Signore, sono un peccatore!‘ (Luca 5,8)”.
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Probabilmente ciò non è più chiaramente illustrato che nelle circostanze in cui avvenne la conversione di Saulo di Tarso. Egli fu uno zelante persecutore della chiesa agli albori, responsabile della morte di tanti uomini e donne seguaci di Gesù Cristo. Mentre si trovava in viaggio per Damasco per smascherare e punire i cristiani, il Signore stesso intervenne drammaticamente e mise fine alle sue attività. Nel raccontare anni dopo l’avvenimento al re Agrippa, Paolo disse:
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Intorno al meriggio, o re, mentre ero sulla via, vidi una luce dal cielo, più luminosa del sole, che guizzava tra me e i miei compagni. Cademmo tutti a terra, e udii una voce parlarmi in aramaico: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ti è duro recalcitrare contro i pungoli”. Quindi io chiesi: “Chi sei tu, Signore?”, “Io sono Gesù, che tu perseguiti”, replicò il Signore, “Ora alzati e sta’ in piedi. Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone delle cose che tu hai visto e di quelle per cui io ti apparirò” (Atti 26,13-16).
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Non passò molto tempo però che Pietro sembrò dimenticare la santità del Signore, come vediamo quattro capitoli più avanti sul monte della trasfigurazione. Questo evento esemplare vide la visita di due tra le più celebrate figure del passato d’Israele, Mosè ed Elia, e nel momento culminante, un Gesù trasfigurato divenne bagliore sfolgorante di luce. Eppure Pietro, invece di prostrarsi davanti al Signore come nell’episodio precedente, pareva inconsapevole di quanto si stava svolgendo, e suggerì chiassosamente che forse avrebbero potuto costruire dei rifugi temporanei per tutti. In quel momento, Dio Padre intervenne personalmente. “Mentre [Pietro] parlava, apparve una nuvola che tutti li ricoprì, ed essi erano timorosi nell’entrare dentro la nuvola. Ne uscì una voce che esclamò: ‘Questi è mio Figlio, che io ho prescelto; ascoltatelo‘ (Luca 9,34-35). Ciò sembrò avere un effetto raggelante su Pietro e gli altri, come illustra Matteo: “Quando i discepoli udirono questo, essi caddero faccia a terra, atterriti” (Matteo 17,6).  
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È per noi motivo di stupore che Saulo sia uscito vivo da questo incontro. Dio avrebbe avuto ogni ragione di annientarlo proprio là sulla via di Damasco. Tuttavia, invece di ricevere il castigo dalle mani del Santo che aveva perseguitato, Saulo esperì il grande amore e l’accettazione del Signore. Ottenne persino l’incarico di servire da ambasciatore per Colui a cui si era opposto con cotanta veemenza. Quale meravigliosa grazia!
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Il profeta Isaia visse una drammatica esperienza che lo segnò per sempre. Gli apparve una visione del Signore “assiso sopra un trono alto ed elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio” (Isaia 6,1). In questa visione, esseri angelici dichiaravano la traboccante santità di Dio: “Al suono delle loro voci gli stipiti della porta ne furono scossi e il tempio si riempì di fumo” (v.4). Sconvolto da questa formidabile visione, Isaia rispose nel solo modo adatto: “Ahimé! Io sono perduto perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il Re, l’Eterno degli eserciti!” (v.5).
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La santità di Dio lo pone in verità su un piano diverso dal nostro, così come il cielo sta sopra la terra. Ma grazie a Dio, ciò non gli ha impedito di toccare e trasformare i Giacobbi in Israeli e i Sauli in Paoli. I nostri nomi possono non cambiare, ma la nostra trasformazione interiore è resa certa dal nostro incontro con la santità di Dio.
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Qualcuno ha definito l’esperienza di Isaia il “fattore di disintegrazione”. R.C.Sproul scrive: “Per la prima volta nella sua vita, Isaia capì realmente chi fosse Dio. Al tempo stesso, per la prima volta Isaia capì realmente chi fosse Isaia”<ref>Ibid., pp. 45–46.</ref>. Se la parola integrità significa interezza (intera come un numero primo), la disintegrazione significa andare in frantumi. Molti di noi tentano in ogni modo di vivere la propria vita “nel suo intero”, e persino quando ci sentiamo del tutto perduti, cerchiamo almeno di sembrare “integri”. Com’è sconvolgente quindi essere alla presenza di Dio, e smarrirsi completamente nello scoprire la profondità della nostra condizione di peccatori.  
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<br> '''Avvicinarsi a un Dio di santità'''
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La consapevolezza della propria condizione di peccatori è all’inizio causa sdi avversione verso Dio. In quasi tutti i racconti biblici di visitazioni angeliche, la gente cade preda di terribile spavento.
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Quanto più dunque chi vede Iddio nella sua meravigliosa santità? Gli Israeliti che stavano davanti al monte Sinai mentre questo veniva scosso dalla santa presenza di Dio, implorarono Mosè di essere il loro intermediario, il loro tramite. Mosè rammentò loro questo: “Allorché udiste una voce provenire dalle tenebre, mentre la montagna ardeva nel fuoco, tutti i capi delle vostre tribù e i vostri anziani vennero a me. E voi diceste: ‘Il Signore nostro Dio ha mostrato la sua gloria e la sua maestà, e abbiamo udito la sua voce dal fuoco. Oggi abbiamo visto che un uomo può restare vivo persino dopo che Dio gli ha parlato. Ma adesso, perché dovremmo morire? Questo gran fuoco ci consumerà, e moriremo se ancora udremo la voce del Signore Dio nostro. Perché quale mai uomo mortale ha udito la voce del Dio vivente parlare dal fuoco, come noi, ed è sopravvissuto? Avvicinati e ascolta tutto quel che il Signore Dio nostro dice. Raccontaci poi quel che il Signore Dio nostro ti ha detto. Noi ascolteremo e obbediremo‘” (Deuteronomio 5,23-27).
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Una volta sentii John Wimber parlare di coloro che non vogliono una relazione con Dio poiché la considerano troppo pericolosa, ma preferirebbero intrattenerla con la Cristianità o con la chiesa. Anche se questo è sicuramente il caso per alcuni, un vero cristiano nutre il desiderio di santità. Egli sa che soltanto i puri di cuore vedranno Iddio (Matteo 5,8), e aspira a quella purezza che lo renderà capace di rimirare il suo Signore. Il cristiano che sta maturando si sente rassicurato dell’amore di Dio dalla consapevolezza della santità divina. Egli capisce che, nonostante la santità di Dio e la propria condizione di peccato, il Signore ha lungamente sofferto per lui; egli merita il giudizio, ma invece riceve la misericordia che si rinnova ogni giorno.
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Possiamo considerare i nostri tentativi di vivere una vita cristiana piuttosto fiacchi, ma se abbiamo il desiderio di santità possiamo rincuorarci. Dio è colui che ha acceso quel desiderio ed è sicuro che accadrà. Ma come? Come obbediremo al verosimilmente impossibile comandamento di Dio “Sii santo, poiché Io sono santo” (1 Pietro 1,16)? Come possiamo avvicinare “il beato e unico Sovrano, il Re dei re e il Signore dei signori che solo è immortale e''abita una luce inaccessibile'', che nessun uomo ha mai visto, né può vedere” (1 Timoteo 6,15-16; corsivo dell’autore)?
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Dobbiamo avvicinarci con timore reverenziale, così com’è potentemente illustrato dal ministero del sacerdote dell’Antico Testamento. Avvicinarsi a Dio per il sacerdote esigeva regolamenti strettamente codificati. Non si poteva entrare nel Sancta Sanctorum a proprio piacimento. L’Alto Sacerdote entrava nel luogo più santo soltanto una volta all’anno nel giorno dell’Espiazione. Doveva dapprima offrire un sacrificio per se stesso, in cui il sangue faceva da memento della sua condizione di peccatore e della santità di Dio, dopodiché doveva indossare speciali paramenti. Sull’orlo della veste si alternavano melograni e campanelli che suonavano per provare che era ancora vivo, che la santità divina non lo aveva ucciso. Secondo la tradizione, egli aveva una corda attorno a sé cosicché, qualora fosse morto alla presenza di Dio, gli altri sacerdoti avrebbero potuto trascinarlo fuori senza dover entrare loro stessi.
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Tali elaborate precauzioni suonavano come un chiaro avvertimento: con la santità di Dio non si scherza. I figli di Aronne, Nadab e Abihu, impararono la lezione con le maniere forti. Quando questi sacerdoti provarono un nuovo modo di bruciare incenso davanti al Signore, “una fiamma provenne dalla presenza del Signore e li consumò, ed essi morirono davanti a lui” (Levitico 10,2). Inutile a dirsi, quella fu l’ultima volta che vennero provate delle innovazioni.
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Nella costernazione del momento, Mosè ricordò ad Aronne le parole del Signore: “Tra quelli che mi avvicinano mi mostrerò santo; davanti a tutte le genti sarò onorato” (Levitico 10,4). Nessun passaggio riflette meglio la rivelazione centrale dell’Antico Testamento, così com’è riassunta da Salomone: “Il timore di Dio è l’inizio della conoscenza” (Proverbi 1,7).
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Il timore reverenziale è fondamentale, ma non potremmo nemmeno lontanamente avvicinare la santa presenza di Dio se non fosse per il nostro mediatore, Gesù Cristo. Un mediatore è quegli che fa da ponte tra due parti opposte. Il nostro peccato ci ha alienato Dio e lo ha reso adirato. Ciononostante, egli non ha smesso di amarci. La sua santità non lo ha in alcun modo reso riluttante nell’inviarci suo Figlio a remissione dei nostri peccati, così che saremo ammessi alla sua presenza in Cristo e ne gioiremo per l’eternità. Come Paolo spiegò ai Corinzi: “Dio si sta riconciliando con il mondo in Cristo” (2 Corinzi 5,19). Gesù Cristo, in quanto nostro mediatore, soffrì il castigo per la nostra disobbedienza affinché la riconciliazione fosse possibile. Ma la salvezza era il desiderio collettivo e lo sforzo cooperativo di Padre, Figlio e Spirito Santo.
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Un’altra osservazione finale sul sacerdozio nell’Antico Testamento. Mediare tra Dio e il popolo era responsabilità del sacerdote. Su ciascuna spalla dell’abito dell’Alto Sacerdote vi era una pietra d’onice su cui erano incisi i nomi delle sei tribù delle nazioni d’Israele. Sul petto della veste erano cucite dodici diverse pietre, una per ciascuna delle dodici tribù. Entrando nel Sancta Sanctorum, egli portava simbolicamente il popolo di Dio sulle spalle e sul cuore. All’epoca del Nuovo Testamento, Gesù è naturalmente il nostro Alto Sacerdote. Tanto è grande il suo amore per noi, che anche egli ci porta sulle spalle, sopportando il nostro fardello e, come amico compassionevole, ci tiene vicini al suo cuore.
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Sapere che Gesù è il nostro mediatore ci rende in grado di vedere Dio non soltanto come un fuoco che consuma, ma come un Padre con cui ci siamo riconciliati<ref>J.C. Ryle, Expository Thoughts on the Gospels: Luke (Hertfordshire, England: Evangelical Press, 1879, 1985), p. 71</ref>. Dovremmo metterci d’impegno per conoscere e apprezzare questo vitale ministero di nostro Signore Gesù. Comprendere il significato del suo sacerdozio sfocerà in una sincera gratitudine e in una maggior consapevolezza di tutto quel che Dio ha fatto per noi.
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'''Nostra in partecipazione'''
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Una delle più sorprendenti promesse di tutte le Scritture, è l’assicurazione che condivideremo la santità di Dio: “I nostri padri ci corressero per pochi giorni, come sembrava loro bene; ma Dio ci corregge per il nostro bene affinché siamo partecipi della sua santità” (Ebrei 12,10).
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Quando consideriamo con serietà la santità di nostro Signore, ci sembra incredibile che potremmo sperimentarne in una certa qual misura, eppure è proprio ciò che quel passaggio da Ebrei afferma chiaramente. Così com’è sicuro che Dio corregge i propri figli (e non vi sono dubbi a riguardo), noi gioiremo di parte della sua santità.
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Che tale promessa includa la correzione non deve scoraggiarci. La correzione è il metodo provato di Dio per rendere perfetti i propri figli, e come tale richiede la nostra partecipazione attiva. Il XII capitolo di Ebrei ci spinge a uno sforzo vigoroso da parte nostra. Notate il linguaggio esortativo che l’autore usa: “Deponiamo ogni peso e il peccato che ci sta sempre attorno allettandoci” (v.1)… “Corriamo con perseveranza la gara che ci è posta davanti” (v.1)… “Combattendo contro il peccato” (v.4)… “Sostenete la correzione” (v.7)… “Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia vacillanti” (v.12)… “Cercate la pace con tutti e la santificazione; senza la quale nessuno vedrà il Signore” (v.14; corsivo dell’autore).
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La correzione del nostro Padre potrà essere temporaneamente penosa, ma ci formerà per trascorrere l’eternità nella santità di Dio.
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Giacobbe era un uomo che certamente ebbe la sua parte di sventure, molte delle quali autoinflitte, ma alla fine della sua vita non era più Giacobbe. Il suo nome divenne Israele. Nel corso della sua esistenza erano intervenuti un cambiamento di nome e anche uno di carattere. Camminava zoppo, appoggiato al suo bastone, e adorò Dio in quanto Santo (Ebrei 11,21).
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Geremia disse: “È una grazia dell’Eterno che non siamo interamente distrutti” (Lamentazioni 3,22; Bibbia di re Giacomo). Non meritiamo un trattamento migliore di quel che ricevettero Nadab e Abihu. Ma ben lungi dal venire arsi, ci ritroviamo oggetto d’amore divino.
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Probabilmente ciò non è più chiaramente illustrato che nelle circostanze in cui avvenne la conversione di Saulo di Tarso. Egli fu uno zelante persecutore della chiesa agli albori, responsabile della morte di tanti uomini e donne seguaci di Gesù Cristo. Mentre si trovava in viaggio per Damasco per smascherare e punire i cristiani, il Signore stesso intervenne drammaticamente e mise fine alle sue attività. Nel raccontare anni dopo l’avvenimento al re Agrippa, Paolo disse:
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<blockquote>Intorno al meriggio, o re, mentre ero sulla via, vidi una luce dal cielo, più luminosa del sole, che guizzava tra me e i miei compagni. Cademmo tutti a terra, e udii una voce parlarmi in aramaico: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ti è duro recalcitrare contro i pungoli”. Quindi io chiesi: “Chi sei tu, Signore?”, “Io sono Gesù, che tu perseguiti”, replicò il Signore, “Ora alzati e sta’ in piedi. Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone delle cose che tu hai visto e di quelle per cui io ti apparirò” (Atti 26,13-16). </blockquote>
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È per noi motivo di stupore che Saulo sia uscito vivo da questo incontro. Dio avrebbe avuto ogni ragione di annientarlo proprio là sulla via di Damasco. Tuttavia, invece di ricevere il castigo dalle mani del Santo che aveva perseguitato, Saulo esperì il grande amore e l’accettazione del Signore. Ottenne persino l’incarico di servire da ambasciatore per Colui a cui si era opposto con cotanta veemenza. Quale meravigliosa grazia!
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La santità di Dio lo pone in verità su un piano diverso dal nostro, così come il cielo sta sopra la terra. Ma grazie a Dio, ciò non gli ha impedito di toccare e trasformare i Giacobbi in Israeli e i Sauli in Paoli. I nostri nomi possono non cambiare, ma la nostra trasformazione interiore è resa certa dal nostro incontro con la santità di Dio.
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<br> '''Discussioni di gruppo'''
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Discussioni di gruppo
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#Come definireste la blasfemia? Fornite esempi di come cristiani e non cristiani sono blasfemi contro Dio.
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#Secondo l’autore, perché Dio consacrò così tante cose quali sante nell’Antico Testamento?
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#Di tutti i discepoli, Giovanni fu il più intimo con Gesù. Alla luce di questo, che cosa rende significativa la reazione di Giovanni alla sua visione di Gesù in Rivelazioni 1,10-17?
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#La santità divina vi ha mai personalmente causato esperienze come il “fattore di disintegrazione” (vedi il capitolo omonimo)?
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#Quali degli attributi di Dio vi sembrano più attraenti? E quali i più minacciosi?
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#Quali tipi di comportamento potrebbero indicare che un cristiano ha un atteggiamento di irrispettosa familiarità con Dio?
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#Pensate che sia giusto che Dio annienti qualcuno?
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#Quale disciplina spirituale avete visto nella domanda n°4? Come potreste sviluppare tale disciplina?
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#Quale livello di santità possiamo aspettarci in questa vita?
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#La discussione di questo capitolo sulla santità vi rende timorosi di Dio o sicuri di lui?
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1. Come definireste la blasfemia? Fornite esempi di come cristiani e non cristiani sono blasfemi contro Dio.
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2. Secondo l’autore, perché Dio consacrò così tante cose quali sante nell’Antico Testamento?
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3. Di tutti i discepoli, Giovanni fu il più intimo con Gesù. Alla luce di questo, che cosa rende significativa la reazione di Giovanni alla sua visione di Gesù in Rivelazioni 1,10-17?
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4. La santità divina vi ha mai personalmente causato esperienze come il “fattore di disintegrazione” (vedi il capitolo omonimo)?
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5. Quali degli attributi di Dio vi sembrano più attraenti? E quali i più minacciosi?
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6. Quali tipi di comportamento potrebbero indicare che un cristiano ha un atteggiamento di irrispettosa familiarità con Dio?
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7. Pensate che sia giusto che Dio annienti qualcuno?
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8. Quale disciplina spirituale avete visto nella domanda n°4? Come potreste sviluppare tale disciplina?
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9. Quale livello di santità possiamo aspettarci in questa vita?
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10. La discussione di questo capitolo sulla santità vi rende timorosi di Dio o sicuri di lui?
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'''Letture raccomandate'''
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''Holiness'' di J.C. Ryle (Hertfordshire, England: Evangelical Press, 1979. Pubblicato originariamente nel 1879.)
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Letture raccomandate
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''The Holiness of God'' di R.C. Sproul (Wheaton, IL: Tyndale House Publishers, 1985)
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Holiness di J.C. Ryle (Hertfordshire, England: Evangelical Press, 1979. Pubblicato originariamente nel 1879.)
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''The Knowledge of the Holy'' di A.W. Tozer (Camp Hill, PA: Christian Publications, Inc., 1978) <references />
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The Holiness of God di R.C. Sproul (Wheaton, IL: Tyndale House Publishers, 1985)
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The Knowledge of the Holy di A.W. Tozer (Camp Hill, PA: Christian Publications, Inc., 1978)
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Versione corrente delle 16:20, 30 gen 2010

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Di Robin Boisvert su Vangelo
Capitolo 5 del libro Questa grande salvezza

Traduzione di Porzia Persio

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Quella sera ero arrivato all’assemblea di umore esuberante, così quando un caro amico entrò, gli urlai dal fondo della stanza: “Vieni qui, in nome di Cristo!”.

Poco più tardi, un giovane mi prese discretamente da parte e mi espresse il suo turbamento nel sentir nominare il nome di Gesù così sventatamente.

Rosso di vergogna mormorai: “Grazie di avermelo fatto notare”. Era evidente che il giovane era preoccupato per me personalmente. Sapevo anche che aveva ragione e che aveva dimostrato più riguardo per l’onore di Dio di quanto avessi fatto io. Sebbene non intendessi fare del male, mi resi conto da quell’accaduto di essermi permesso fin troppa familiarità con il nome del Signore.

Non era cominciata così. All’epoca della mia conversione tre anni addietro, avevo sentito quanto fosse travolgente il potere di Dio nel cambiare la mia vita.

Le assemblee erano pervase della sua presenza, e le sorprendenti risposte alle mie preghiere mi avevano persuaso della realtà dello Spirito Santo e dell’amore di Gesù Cristo. Chi altri avrebbe potuto farmi superare definitivamente la depressione e la disperazione che mi avevano attanagliato tanto a lungo? Tuttavia, mentre l’intensità di quei primi mesi gradualmente si placava in una fede più concreta, qualcos’altro si stava lentamente insinuando. La maestosa grandezza di Dio veniva pian piano sgretolata da una crescente familiarità. Era ormai tempo di riconsiderare la santità di Dio.

Santità. La parola in sé evoca immagini di cupi monaci che abitano in freddi monasteri, si nutrono di cibi insipidi e vivono vite senza gioia; oppure facce lunghe, abiti castigati e lunghe liste di cose che non si devono fare. Ma che ne è della bellezza? La parola santità fa scaturire forse pensieri di bellezza? Probabilmente no. Eppure la bellezza è una qualità spesso associata alla santità divina. Nei Salmi siamo esortati ad adorare il Signore “nello splendore della santità” (Salmi 29,2; 96,9 AV). La santità fa risplendere il tempio di Dio nell’eternità: “I tuoi statuti sono stabili. La santità si addice alla tua casa, o Signore, per sempre” (Salmi 93,5).

Malgrado l’accezione chiara e positiva della Bibbia verso la santità, per la maggior parte di noi essa coincide con “travaglio, fatica”. Al solo menzionarne la parola, la nostra mente vede quel che percepiamo come le nostre responsabilità di cristiani. Tuttavia, una qualsivoglia precisa comprensione della santità deve risalire alla sorgente di ogni santità – Iddio stesso. E allorché vediamo la santità divina, non abbiamo più a che fare con le responsabilità dell’uomo, bensì con quell’attributo divino che più ci affascina e ci ispira reverenza.

Il teologo Stephen Charnock fa notare come tra le svariate qualità divine preferiamo quelle che ci apportano un immediato vantaggio, per esempio preferiamo lodare la misericordia di Dio, piuttosto che pensare alla sua ira e giustizia. Siamo più propensi a riflettere su un Salvatore pieno d’amore che a considerare un Dio geloso. Vi sono alcuni attributi divini però di cui Dio stesso gioisce, perché essi esprimono perfettamente la sua propria eccellenza. La santità è uno di questi[1].


Quei misteriosi esseri celesti, i serafini e le quattro creature viventi, sanno che la santità divina deve essere messa ben in rilievo. Pensateci. Essi dimorano nella sua presenza e hanno una visione della realtà del tutto libera da intralci (mentre noi la vediamo confusamente attraverso un vetro). Semmai qualcuno sa, sono loro. E così, continuamente, giorno e notte, mai cessano di proclamare: “Santo, santo, santo è Iddio Signore Onnipotente” (Isaia 6,3; Rivelazioni 4,8).

La santità differisce dalle altre perfezioni di Dio poiché si diffonde su tutti gli altri attributi. Dunque il suo amore è un amore santo, la sua giustizia è una giustizia santa, e così via. Se pensiamo agli attributi divini come alle varie sfaccettature di un diamante, la santità sarebbe allora lo splendore combinato di tutte queste, rifulgenti in sfolgorante gloria.

Superstizioni religiose

Le Scritture hanno molto da dire riguardo alla santità. Il primo libro della Bibbia, il Genesi, descrive la caduta dell’uomo; l’Esodo poi, con la sua immagine centrale dell’agnello di Pesach, ne illustra la redenzione. Segue il Levitico… ah! Il Levitico, libro in cui così tanti aspiranti studiosi della Bibbia si sono impantanati nei loro annuali tentativi di lettura approfondita, senza più riemergerne. Eppure, questo è un libro cruciale se vogliamo comprendere la santità. Il Levitico inoltre illumina il fondamentale sacrificio espiatorio di nostro Signore Gesù Cristo.

Nel Levitico Dio mostra all’uomo come rivolgersi a lui in adorazione; il libro si concentra principalmente sui diversi sacrifici che Dio ha richiesto alla sua gente affinché questa sappia come trattare con lui, e quindi le diverse feste che Dio ha decretato affinché questa rimanga in buoni termini con lui[2]. Per quanto complicato e irrilevante tale elaborato sistema di sacrifici possa sembrarci oggi, Dio lo aveva istituito affinché la sua gente capisse la profonda verità che egli è santo.

La parola santità implica una separazione netta da tutto ciò che è impuro[3]. Dio è diverso da noi. Egli è altri da noi. Sebbene ciò sembri un concetto elementare, è necessario ribadirlo di contro alle attuali concezioni di presunti poteri “New Age” dentro di noi, e di una presunta divinità inerente all’umanità.

Nelle Scritture, quando Dio tocca qualcosa di comune, questo diviene straordinario. Per esempio, poiché fu il luogo della rivelazione divina, la zona attorno al roveto ardente venne marcata come terreno santificato, e Mosè ritenne opportuno levarsi i sandali per rispetto verso Dio. Oppure si considerino gli strumenti usati nel tabernacolo e nel tempio: non erano ordinari, bensì santificati. E così vi erano assemblee sante, altari santi, sante unzioni e giorni santi.

Che cosa li santificava? Un Dio santo. Egli sceglieva cose ordinarie e le rendeva speciali adoperandole a scopi sacri, specificatamente per comunicare alla sua gente di essere santo.

Purtroppo però, molti non capiscono questo punto e piombano nella superstizione religiosa. Una volta in tarda serata fui chiamato al telefono da un’anziana signora che mi chiese di incontrarla per la preghiera, insistendo che non poteva aspettare e che avremmo dovuto incontrarci nella “casa del Signore”. Le suggerii che, data l’ora, un luogo pubblico sarebbe stato più adatto di una chiesa deserta, ma questa continuava a insistere di vederci nella “casa del Signore”. La cara signora era caduta nell’errore di ascrivere a un luogo una determinata speciale qualità che appartiene a Dio soltanto. Non capiva che, in quest’epoca del Nuovo Testamento, nessun luogo è santo di per sé, neppure la “Terra Santa”.

Il profeta Geremia, consapevole di una simile attitudine tra la sua gente, scrisse: “Non ponete la vostra fiducia in parole ingannatrici, dicendo: ‘Questo è il tempio dell’Eterno, il tempio dell’Eterno, il tempio dell’Eterno!‘ (Geremia 7,4)”.

Malgrado la loro reverenza per la struttura fisica del tempio, gli Israeliti che continuavano a ripetere “Il tempio dell’Eterno” avevano purtroppo distolto il loro cuore dal Signore del tempio.

Vedo accadere lo stesso quando coppie non redente, che non nutrono alcun interesse nel seguire Gesù Cristo, considerano nondimeno assolutamente essenziale sposarsi in chiesa. Che altro è se non superstizione questo credere che il loro matrimonio sarà in qualche modo benedetto, se celebrato in un edificio “sacro”? Ritenere importanti i luoghi o le ceremonie o gli artefatti religiosi non dimostra in alcun modo onore e rispetto per il Signore.

Dio, nelle Scritture, ha destinato certe cose a usi speciali, ma con uno scopo ben chiaro, quello cioè di insegnarci che egli è santo ed è a lui che si deve rispetto. Per questa ragione dunque usare cose sacre in maniera profana o ordinaria era ritentuo offensivo verso Iddio.

Il quinto capitolo di Daniele narra la famosa storia della scritta sul muro, allorché Dio vi iscrisse il giudizio divino contro il re di Babilonia. Che cosa suscitò la sua ira? Belshazzar aveva profanato ciò che Dio giudicava sacro, come racconta Daniele: “Così essi presero i calici d’oro sottratti dal tempio di Dio in Gerusalemme, e il re e i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine bevvero da essi. E mentre bevevano, levavano lodi per gli dei d’oro e d’argento, di bronzo, ferro, legno e pietra” (Daniele 5,3-4).

Quando Daniele fu chiamato a decifrare la scritta misteriosa, ne approfittò per ammonire il re. Le sue parole conclusive riassumevano il peccato di Belshazzar: “Tu non hai glorificato il Dio, nella cui mano è il tuo soffio vitale e a cui appartengono tutte le tue vie” (Daniele 5,23).

Il fallimento di Belshazzar nell’onorare le cose di Dio significò il suo fallimento nell’onorare Iddio; la sua basfemia gli costò la vita. Eventi come questo sono sparsi per tutta la Bibbia come avvertimento di ciò che può accadere quando si decide di giocare sconsideratamente con le cose divine. Il giudizio divino si muoverà per i peccati contro la santità di Dio, non importa se subito o alla fine dei tempi.

Il “fattore di disintegrazione”

Dio è così diverso da noi. Sebbene creati a sua immagine, i suoi pensieri e le sue vie sono così ben oltre i nostri che Isaia li paragona alla distanza tra cielo e terra (Isaia 55, 8-9). Forse ciò è tanto più chiaro per quanto concerne la sua eccellenza morale. Come fu detto dal profeta Abacuc: “I tuoi occhi sono troppo puri per guardare il male; tu non puoi tollerare il torto” (Abacuc, 1,13).

L’assoluta purezza di Dio va ben oltre la mera mancanza di peccaminosità. Essa è una positiva espressione della sua bontà, e non soltanto l’assenza del peccato. Abbiamo tutti conosciuto persone il cui carattere risplende tanto più luminosamente del nostro da farci sentire meschini e impuri al loro confronto. Ho un amico che, prima di radersi completamente la barba, somigliava a una combinazione di Abraham Lincoln e Gesù (cioè come ce li si rappresenta adesso). La somiglianza non si limita all’apparenza fisica, anzi la sua gentilezza e il suo sapere sono davvero eccezionali. Anche se la cosa lo imbarazzerebbe se lo sapesse, quando sono con lui mi rendo conto del mio egoismo. Se compararci a un altro essere umano può farci sentire così, immaginate l’estremo disagio che proveremmo alla presenza di Dio!

Questo è proprio quel che successe a Pietro. Gesù stupì Pietro un giorno con una pesca miracolosa di pesce. Ma invece che gioirne, Pietro vedeva soltanto la propria peccaminosità. Confrontato con la santità di Gesù, egli si vide com’era davvero, e tale realtà gli fu insopportabile. “Simon Pietro… s’inginocchiò davanti a Gesù e proferì: ‘Allontanati da me, o Signore, sono un peccatore!‘ (Luca 5,8)”.

Non passò molto tempo però che Pietro sembrò dimenticare la santità del Signore, come vediamo quattro capitoli più avanti sul monte della trasfigurazione. Questo evento esemplare vide la visita di due tra le più celebrate figure del passato d’Israele, Mosè ed Elia, e nel momento culminante, un Gesù trasfigurato divenne bagliore sfolgorante di luce. Eppure Pietro, invece di prostrarsi davanti al Signore come nell’episodio precedente, pareva inconsapevole di quanto si stava svolgendo, e suggerì chiassosamente che forse avrebbero potuto costruire dei rifugi temporanei per tutti. In quel momento, Dio Padre intervenne personalmente. “Mentre [Pietro] parlava, apparve una nuvola che tutti li ricoprì, ed essi erano timorosi nell’entrare dentro la nuvola. Ne uscì una voce che esclamò: ‘Questi è mio Figlio, che io ho prescelto; ascoltatelo‘ (Luca 9,34-35)”. Ciò sembrò avere un effetto raggelante su Pietro e gli altri, come illustra Matteo: “Quando i discepoli udirono questo, essi caddero faccia a terra, atterriti” (Matteo 17,6).

Il profeta Isaia visse una drammatica esperienza che lo segnò per sempre. Gli apparve una visione del Signore “assiso sopra un trono alto ed elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio” (Isaia 6,1). In questa visione, esseri angelici dichiaravano la traboccante santità di Dio: “Al suono delle loro voci gli stipiti della porta ne furono scossi e il tempio si riempì di fumo” (v.4). Sconvolto da questa formidabile visione, Isaia rispose nel solo modo adatto: “Ahimé! Io sono perduto perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il Re, l’Eterno degli eserciti!” (v.5).

Qualcuno ha definito l’esperienza di Isaia il “fattore di disintegrazione”. R.C.Sproul scrive: “Per la prima volta nella sua vita, Isaia capì realmente chi fosse Dio. Al tempo stesso, per la prima volta Isaia capì realmente chi fosse Isaia”[4]. Se la parola integrità significa interezza (intera come un numero primo), la disintegrazione significa andare in frantumi. Molti di noi tentano in ogni modo di vivere la propria vita “nel suo intero”, e persino quando ci sentiamo del tutto perduti, cerchiamo almeno di sembrare “integri”. Com’è sconvolgente quindi essere alla presenza di Dio, e smarrirsi completamente nello scoprire la profondità della nostra condizione di peccatori.


Avvicinarsi a un Dio di santità

La consapevolezza della propria condizione di peccatori è all’inizio causa sdi avversione verso Dio. In quasi tutti i racconti biblici di visitazioni angeliche, la gente cade preda di terribile spavento.

Quanto più dunque chi vede Iddio nella sua meravigliosa santità? Gli Israeliti che stavano davanti al monte Sinai mentre questo veniva scosso dalla santa presenza di Dio, implorarono Mosè di essere il loro intermediario, il loro tramite. Mosè rammentò loro questo: “Allorché udiste una voce provenire dalle tenebre, mentre la montagna ardeva nel fuoco, tutti i capi delle vostre tribù e i vostri anziani vennero a me. E voi diceste: ‘Il Signore nostro Dio ha mostrato la sua gloria e la sua maestà, e abbiamo udito la sua voce dal fuoco. Oggi abbiamo visto che un uomo può restare vivo persino dopo che Dio gli ha parlato. Ma adesso, perché dovremmo morire? Questo gran fuoco ci consumerà, e moriremo se ancora udremo la voce del Signore Dio nostro. Perché quale mai uomo mortale ha udito la voce del Dio vivente parlare dal fuoco, come noi, ed è sopravvissuto? Avvicinati e ascolta tutto quel che il Signore Dio nostro dice. Raccontaci poi quel che il Signore Dio nostro ti ha detto. Noi ascolteremo e obbediremo‘” (Deuteronomio 5,23-27).

Una volta sentii John Wimber parlare di coloro che non vogliono una relazione con Dio poiché la considerano troppo pericolosa, ma preferirebbero intrattenerla con la Cristianità o con la chiesa. Anche se questo è sicuramente il caso per alcuni, un vero cristiano nutre il desiderio di santità. Egli sa che soltanto i puri di cuore vedranno Iddio (Matteo 5,8), e aspira a quella purezza che lo renderà capace di rimirare il suo Signore. Il cristiano che sta maturando si sente rassicurato dell’amore di Dio dalla consapevolezza della santità divina. Egli capisce che, nonostante la santità di Dio e la propria condizione di peccato, il Signore ha lungamente sofferto per lui; egli merita il giudizio, ma invece riceve la misericordia che si rinnova ogni giorno.

Possiamo considerare i nostri tentativi di vivere una vita cristiana piuttosto fiacchi, ma se abbiamo il desiderio di santità possiamo rincuorarci. Dio è colui che ha acceso quel desiderio ed è sicuro che accadrà. Ma come? Come obbediremo al verosimilmente impossibile comandamento di Dio “Sii santo, poiché Io sono santo” (1 Pietro 1,16)? Come possiamo avvicinare “il beato e unico Sovrano, il Re dei re e il Signore dei signori che solo è immortale eabita una luce inaccessibile, che nessun uomo ha mai visto, né può vedere” (1 Timoteo 6,15-16; corsivo dell’autore)?

Dobbiamo avvicinarci con timore reverenziale, così com’è potentemente illustrato dal ministero del sacerdote dell’Antico Testamento. Avvicinarsi a Dio per il sacerdote esigeva regolamenti strettamente codificati. Non si poteva entrare nel Sancta Sanctorum a proprio piacimento. L’Alto Sacerdote entrava nel luogo più santo soltanto una volta all’anno nel giorno dell’Espiazione. Doveva dapprima offrire un sacrificio per se stesso, in cui il sangue faceva da memento della sua condizione di peccatore e della santità di Dio, dopodiché doveva indossare speciali paramenti. Sull’orlo della veste si alternavano melograni e campanelli che suonavano per provare che era ancora vivo, che la santità divina non lo aveva ucciso. Secondo la tradizione, egli aveva una corda attorno a sé cosicché, qualora fosse morto alla presenza di Dio, gli altri sacerdoti avrebbero potuto trascinarlo fuori senza dover entrare loro stessi.

Tali elaborate precauzioni suonavano come un chiaro avvertimento: con la santità di Dio non si scherza. I figli di Aronne, Nadab e Abihu, impararono la lezione con le maniere forti. Quando questi sacerdoti provarono un nuovo modo di bruciare incenso davanti al Signore, “una fiamma provenne dalla presenza del Signore e li consumò, ed essi morirono davanti a lui” (Levitico 10,2). Inutile a dirsi, quella fu l’ultima volta che vennero provate delle innovazioni.

Nella costernazione del momento, Mosè ricordò ad Aronne le parole del Signore: “Tra quelli che mi avvicinano mi mostrerò santo; davanti a tutte le genti sarò onorato” (Levitico 10,4). Nessun passaggio riflette meglio la rivelazione centrale dell’Antico Testamento, così com’è riassunta da Salomone: “Il timore di Dio è l’inizio della conoscenza” (Proverbi 1,7).

Il timore reverenziale è fondamentale, ma non potremmo nemmeno lontanamente avvicinare la santa presenza di Dio se non fosse per il nostro mediatore, Gesù Cristo. Un mediatore è quegli che fa da ponte tra due parti opposte. Il nostro peccato ci ha alienato Dio e lo ha reso adirato. Ciononostante, egli non ha smesso di amarci. La sua santità non lo ha in alcun modo reso riluttante nell’inviarci suo Figlio a remissione dei nostri peccati, così che saremo ammessi alla sua presenza in Cristo e ne gioiremo per l’eternità. Come Paolo spiegò ai Corinzi: “Dio si sta riconciliando con il mondo in Cristo” (2 Corinzi 5,19). Gesù Cristo, in quanto nostro mediatore, soffrì il castigo per la nostra disobbedienza affinché la riconciliazione fosse possibile. Ma la salvezza era il desiderio collettivo e lo sforzo cooperativo di Padre, Figlio e Spirito Santo.

Un’altra osservazione finale sul sacerdozio nell’Antico Testamento. Mediare tra Dio e il popolo era responsabilità del sacerdote. Su ciascuna spalla dell’abito dell’Alto Sacerdote vi era una pietra d’onice su cui erano incisi i nomi delle sei tribù delle nazioni d’Israele. Sul petto della veste erano cucite dodici diverse pietre, una per ciascuna delle dodici tribù. Entrando nel Sancta Sanctorum, egli portava simbolicamente il popolo di Dio sulle spalle e sul cuore. All’epoca del Nuovo Testamento, Gesù è naturalmente il nostro Alto Sacerdote. Tanto è grande il suo amore per noi, che anche egli ci porta sulle spalle, sopportando il nostro fardello e, come amico compassionevole, ci tiene vicini al suo cuore.

Sapere che Gesù è il nostro mediatore ci rende in grado di vedere Dio non soltanto come un fuoco che consuma, ma come un Padre con cui ci siamo riconciliati[5]. Dovremmo metterci d’impegno per conoscere e apprezzare questo vitale ministero di nostro Signore Gesù. Comprendere il significato del suo sacerdozio sfocerà in una sincera gratitudine e in una maggior consapevolezza di tutto quel che Dio ha fatto per noi.

Nostra in partecipazione

Una delle più sorprendenti promesse di tutte le Scritture, è l’assicurazione che condivideremo la santità di Dio: “I nostri padri ci corressero per pochi giorni, come sembrava loro bene; ma Dio ci corregge per il nostro bene affinché siamo partecipi della sua santità” (Ebrei 12,10).

Quando consideriamo con serietà la santità di nostro Signore, ci sembra incredibile che potremmo sperimentarne in una certa qual misura, eppure è proprio ciò che quel passaggio da Ebrei afferma chiaramente. Così com’è sicuro che Dio corregge i propri figli (e non vi sono dubbi a riguardo), noi gioiremo di parte della sua santità.

Che tale promessa includa la correzione non deve scoraggiarci. La correzione è il metodo provato di Dio per rendere perfetti i propri figli, e come tale richiede la nostra partecipazione attiva. Il XII capitolo di Ebrei ci spinge a uno sforzo vigoroso da parte nostra. Notate il linguaggio esortativo che l’autore usa: “Deponiamo ogni peso e il peccato che ci sta sempre attorno allettandoci” (v.1)… “Corriamo con perseveranza la gara che ci è posta davanti” (v.1)… “Combattendo contro il peccato” (v.4)… “Sostenete la correzione” (v.7)… “Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia vacillanti” (v.12)… “Cercate la pace con tutti e la santificazione; senza la quale nessuno vedrà il Signore” (v.14; corsivo dell’autore).

La correzione del nostro Padre potrà essere temporaneamente penosa, ma ci formerà per trascorrere l’eternità nella santità di Dio.

Giacobbe era un uomo che certamente ebbe la sua parte di sventure, molte delle quali autoinflitte, ma alla fine della sua vita non era più Giacobbe. Il suo nome divenne Israele. Nel corso della sua esistenza erano intervenuti un cambiamento di nome e anche uno di carattere. Camminava zoppo, appoggiato al suo bastone, e adorò Dio in quanto Santo (Ebrei 11,21).

Geremia disse: “È una grazia dell’Eterno che non siamo interamente distrutti” (Lamentazioni 3,22; Bibbia di re Giacomo). Non meritiamo un trattamento migliore di quel che ricevettero Nadab e Abihu. Ma ben lungi dal venire arsi, ci ritroviamo oggetto d’amore divino.

Probabilmente ciò non è più chiaramente illustrato che nelle circostanze in cui avvenne la conversione di Saulo di Tarso. Egli fu uno zelante persecutore della chiesa agli albori, responsabile della morte di tanti uomini e donne seguaci di Gesù Cristo. Mentre si trovava in viaggio per Damasco per smascherare e punire i cristiani, il Signore stesso intervenne drammaticamente e mise fine alle sue attività. Nel raccontare anni dopo l’avvenimento al re Agrippa, Paolo disse:

Intorno al meriggio, o re, mentre ero sulla via, vidi una luce dal cielo, più luminosa del sole, che guizzava tra me e i miei compagni. Cademmo tutti a terra, e udii una voce parlarmi in aramaico: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ti è duro recalcitrare contro i pungoli”. Quindi io chiesi: “Chi sei tu, Signore?”, “Io sono Gesù, che tu perseguiti”, replicò il Signore, “Ora alzati e sta’ in piedi. Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone delle cose che tu hai visto e di quelle per cui io ti apparirò” (Atti 26,13-16).

È per noi motivo di stupore che Saulo sia uscito vivo da questo incontro. Dio avrebbe avuto ogni ragione di annientarlo proprio là sulla via di Damasco. Tuttavia, invece di ricevere il castigo dalle mani del Santo che aveva perseguitato, Saulo esperì il grande amore e l’accettazione del Signore. Ottenne persino l’incarico di servire da ambasciatore per Colui a cui si era opposto con cotanta veemenza. Quale meravigliosa grazia!

La santità di Dio lo pone in verità su un piano diverso dal nostro, così come il cielo sta sopra la terra. Ma grazie a Dio, ciò non gli ha impedito di toccare e trasformare i Giacobbi in Israeli e i Sauli in Paoli. I nostri nomi possono non cambiare, ma la nostra trasformazione interiore è resa certa dal nostro incontro con la santità di Dio.


Discussioni di gruppo

  1. Come definireste la blasfemia? Fornite esempi di come cristiani e non cristiani sono blasfemi contro Dio.
  2. Secondo l’autore, perché Dio consacrò così tante cose quali sante nell’Antico Testamento?
  3. Di tutti i discepoli, Giovanni fu il più intimo con Gesù. Alla luce di questo, che cosa rende significativa la reazione di Giovanni alla sua visione di Gesù in Rivelazioni 1,10-17?
  4. La santità divina vi ha mai personalmente causato esperienze come il “fattore di disintegrazione” (vedi il capitolo omonimo)?
  5. Quali degli attributi di Dio vi sembrano più attraenti? E quali i più minacciosi?
  6. Quali tipi di comportamento potrebbero indicare che un cristiano ha un atteggiamento di irrispettosa familiarità con Dio?
  7. Pensate che sia giusto che Dio annienti qualcuno?
  8. Quale disciplina spirituale avete visto nella domanda n°4? Come potreste sviluppare tale disciplina?
  9. Quale livello di santità possiamo aspettarci in questa vita?
  10. La discussione di questo capitolo sulla santità vi rende timorosi di Dio o sicuri di lui?


Letture raccomandate

Holiness di J.C. Ryle (Hertfordshire, England: Evangelical Press, 1979. Pubblicato originariamente nel 1879.)

The Holiness of God di R.C. Sproul (Wheaton, IL: Tyndale House Publishers, 1985)

The Knowledge of the Holy di A.W. Tozer (Camp Hill, PA: Christian Publications, Inc., 1978)
  1. Stephen Charnock, The Existence and Attributes of God, Vol. II (Grand Rapids, MI: Baker Book House, 1979 reprint), p. 112.
  2. Henrietta Mears, What the Bible Is All About (Ventura, CA: Regal Books, 1983), p. 51.
  3. Ibid., p. 58.
  4. Ibid., pp. 45–46.
  5. J.C. Ryle, Expository Thoughts on the Gospels: Luke (Hertfordshire, England: Evangelical Press, 1879, 1985), p. 71