Alterare la Trinità

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(Creata pagina con '{{info|Tampering with the Trinity}}<br> === Alterare la Trinità1 === '''Introduzione''' zzzzz Per molti il problema semplicemente questo: l'integrità e la realtà della...')
(Il rifiuto del femminismo evangelico del subordinazionismo funzionale eterno nell'ambito di Dio uno e trino)
 
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=== Alterare la Trinità1 ===
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=== Alterare la Trinità: è il Figlio sottomesso al Padre?<ref>Questo articolo fu inizialmente presentato in forma di saggio alla conferenza "Costruire famiglie forti", Dallas, Texas, 20-22 marzo 2008, sponsorizzata congiuntamente da Family Life e il Consiglio sulla mascolinità e femminilità bibliche. Una versione più lunga e redatta apparirà come parte del prossimo capitolo "La dottrina della Trinità", in ''Dio sotto attacco: gli studiosi moderni reinventano Dio'', a cura di Douglas S. Huffman ed Eric L. Johnson (Zondervan).</ref> ===
'''Introduzione'''  
'''Introduzione'''  
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Coloro non hanno familiarità con gli scritti teologici contemporanei possono stupirsi del fatto che la dottrina storica della Trinità sia sottoposta a disamine, rivalutazioni, riformulazioni e/o difese significative<ref>Si esamini un campione di opere recentemente pubblicate e si noti la varietà di prospettive teologiche e interessi rappresentati tra i loro autori: Colin E. Gunton, ''La promessa della teologia trinitariana'' (Edimburgo, T. &amp;amp;amp; T. Clark, 1991; 2a ed., 1997); Ted Peters, ''Dio come Trinità: relazionalità e temporalità nella vita divina'' (Louisville, Westminster/John Knox, 1993); Thomas F. Torrance, ''Prospettive trinitarie: verso l'accordo dottrinale'' (Edimburgo, T. &amp;amp;amp; T. Clark, 1994); Duncan Reid, ''Energie dello Spirito: modelli trinitariani nella teologia ortodossa orientale e occidentale'' (Atlanta, Scholars Press, 1997); Kevin Vanhoozer, a cura di, ''La Trinità in un'età pluralistica: saggi teologici su cultura e religione'' (Grand Rapids, Eerdmans, 1997).</ref>. A molti, tale dottrina, forse altrettanto o più di qualsiasi altra, appare così astratta e sconnessa dalla vita che potrebbero chiedersi perché riscuota tanto interesse. Che cosa c'è qui da giustificare e risvegliare un'attenzione così focalizzata? Qual è il nocciolo della questione in questa dottrina tale da provocare tanto interesse e coinvolgimento?
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Per molti il problema semplicemente questo: l'integrità e la realtà della fede cristiana in sé. Nel 1985 Donald Bloesch sorprese non pochi in ambito teologico con la pubblicazione del libro intitolato ''La battaglia per la Trinità''3, in cui accusava il rifiuto femminista dell'uso di termini prevalentemente maschili per definire Dio propri della Bibbia e teologia tradizionale, di rappresentare il rifiuto della Trinità stessa e, come tale, di voler imporre una fede diversa (cioè, non quella ''cristiana'') a quei settori della chiesa inclini ad accettare la critica femminista. Tali accuse e ansie non accennano a estinguersi. Prendiamo per esempio le pacate parole del professor Geoffrey Wainwright, docente di Teologia Sistematica presso la Duke University:
 
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:I segni dei nostri tempi mostrano che, come nel quarto secolo, la dottrina della Trinità occupa una posizione centrale. Pur ritenendosi come sempre al'interno della chiesa, e in molti casi desiderosi di essere leali alla propria percezione della verità, diversi pensatori e attivisti cercano di riconsiderare la dottrina della Trinità trasmessa loro, tanto che il loro successo potrebbe di fatto significarne l'abbandono o, almeno, un'alterazione tale del suo contenuto, stato e funzione da cambiare drasticamente l'intero volto del cristianesimo. Ancora una volta, la comprensione e forse il raggiungimento della salvezza sono a rischio, o sicuramente lo sono il messaggio e la struttura visibile della chiesa.4
 
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Quali sono le proposte revisioni contemporanee della dottrina della Trinità che potrebbero provocare reazioni tanto forti? Questo articolo si propone di concentrarsi sulle due dimensioni della ricostruzione trinitaria, entrambe derivate dal revisionismo femminista. Innanzitutto, il rifiuto della chiesa corrente del linguaggio trinitario maschile (o, più in generale, di un qualsiasi linguaggio maschile relativo a Dio) è in corso da quasi trent'anni. Se demascolinizzare il nome di Dio ci lasci con il Dio nominato nella Bibbia è ciò che tratteremo qui, con argomentazioni a sostegno del linguaggio maschile tradizionale e biblico per il Dio uno e trino. In secondo luogo, numerosi egalitari evangelici contemporanei spingono la chiesa a mantenere il linguaggio maschile per definire Dio, negando al contempo il fatto che tale linguaggio indichi un qualsiasi tipo di distinzione intra-trinitaria dell'autorità. Soppeseremo questi argomenti e offriremo sostegno al costante impegno della chiesa verso la piena uguaglianza, nelle ipostasi della Trinità, della sostanza e differenziazione delle persone, l'ultima delle quali comprende e comporta l'eterna subordinazione funzionale del Figlio al Padre e dello Spirito ad ambi Padre e Figlio.  
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Per molti il problema è semplicemente questo: l'integrità e la realtà della fede cristiana in sé. Nel 1985 Donald Bloesch sorprese non pochi in ambito teologico con la pubblicazione del libro intitolato ''La battaglia per la Trinità''<ref>Donald Bloesch, ''La battaglia per la Trinità: il dibattito sul linguaggio inclusivo di Dio'' (Ann Arbor, Servant, 1985).</ref>, in cui accusava il rifiuto femminista dell'uso di termini prevalentemente maschili per definire Dio propri della Bibbia e teologia tradizionale, di rappresentare il rifiuto della Trinità stessa e, come tale, di voler imporre una fede diversa (cioè, non quella ''cristiana'') a quei settori della chiesa inclini ad accettare la critica femminista. Tali accuse e ansie non accennano a estinguersi. Prendiamo per esempio le pacate parole del professor Geoffrey Wainwright, docente di Teologia Sistematica presso la Duke University:
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=== Il rifiuto femminista corrente del linguaggio maschile per il Dio uno e trino ===
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:I segni dei nostri tempi mostrano che, come nel quarto secolo, la dottrina della Trinità occupa una posizione centrale. Pur ritenendosi come sempre al'interno della chiesa, e in molti casi desiderosi di essere leali alla propria percezione della verità, diversi pensatori e attivisti cercano di riconsiderare la dottrina della Trinità trasmessa loro, tanto che il loro successo potrebbe di fatto significarne l'abbandono o, almeno, un'alterazione tale del suo contenuto, stato e funzione da cambiare drasticamente l'intero volto del cristianesimo. Ancora una volta, la comprensione e forse il raggiungimento della salvezza sono a rischio, o sicuramente lo sono il messaggio e la struttura visibile della chiesa.<ref>Geoffrey Wainwright, "La dottrina della Trinità: dove la Chiesa cade o resta salda", ''Interpretation'' 45 (1991) 117.</ref>
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Quali sono le proposte revisioni contemporanee della dottrina della Trinità che potrebbero provocare reazioni tanto forti? Questo articolo si propone di concentrarsi sulle due dimensioni della ricostruzione trinitaria, entrambe derivate dal revisionismo femminista. Innanzitutto, il rifiuto della chiesa corrente del linguaggio trinitario maschile (o, più in generale, di un qualsiasi linguaggio maschile relativo a Dio) è in corso da quasi trent'anni. Se demascolinizzare il nome di Dio ci lasci con il Dio nominato nella Bibbia è ciò che tratteremo qui, con argomentazioni a sostegno del linguaggio maschile tradizionale e biblico per il Dio uno e trino. In secondo luogo, numerosi egalitari evangelici contemporanei spingono la chiesa a mantenere il linguaggio maschile per definire Dio, negando al contempo il fatto che tale linguaggio indichi un qualsiasi tipo di distinzione intra-trinitaria dell'autorità. Soppeseremo questi argomenti e offriremo sostegno al costante impegno della chiesa verso la piena uguaglianza, nelle ipostasi della Trinità, della sostanza e differenziazione delle persone, l'ultima delle quali comprende e comporta l'eterna subordinazione funzionale del Figlio al Padre e dello Spirito ad ambi Padre e Figlio.
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=== Il rifiuto femminista corrente del linguaggio maschile per il Dio uno e trino ===
'''I principali argomenti femministi per il rifiuto del linguaggio maschile trinitario'''  
'''I principali argomenti femministi per il rifiuto del linguaggio maschile trinitario'''  
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Mary Daly, per propria ammissione rappresentante radicale del movimento femminista, ha nondimeno colto nel segno della critica femminista all'aderenza storica e biblica della chiesa al linguaggio maschile di Dio nella sua affermazione: "Se Dio è ''maschio'', il maschio è dio"5. Sebbene ''nessun'' teologo di rispetto abbia mai affermato che Dio è ''maschio'', la forza dell'obiezione di Mary Daly sta semplicemente nel fatto che riferirsi a Dio con linguaggio maschile dà l'idea che la mascolinità sia maggiormente a somiglianza di Dio. Tale idea, quindi, nel modo in cui è asserita tiene le donne in posizione subordinata e concede loro un minor diritto alla dignità. L'unico modo per correggerla può essere quello di rimuovere la predominanza del linguaggio maschile di Dio dalle nostre Scritture, liturgia e predicazione. Mentre alcuni (come la stessa Daly) si sono spostati verso l'uso esclusivo di un linguaggio femminile terreno e persino neo-pagano per definire la divinità, la maggioranza è in linea con le chiese correnti che condividono la questione fondamentale dell'equilibrio tra riferimenti maschili e femminili (per es., Dio come Padre e Madre) o di un linguaggio del tutto neutro in riferimento a Dio (per es., Creatore, Redentore, Sostenitore per sostituire Padre, Figlio, Spirito Santo)6.  
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Mary Daly, per propria ammissione rappresentante radicale del movimento femminista, ha nondimeno colto nel segno della critica femminista all'aderenza storica e biblica della chiesa al linguaggio maschile di Dio nella sua affermazione: "Se Dio è ''maschio'', il maschio è dio"<ref>Mary Daly, ''Oltre Dio Padre: verso una filosofia della liberazione delle donne'' (Boston, Beacon, 1973) 19.</ref>. Nonostante ''nessun'' teologo che si rispetti abbia mai affermato che Dio è ''maschio'', la forza dell'obiezione di Mary Daly sta semplicemente nel fatto che riferirsi a Dio con linguaggio maschile dà l'idea che la mascolinità sia maggiormente a somiglianza di Dio. Tale idea, quindi, nel modo in cui è asserita tiene le donne in posizione subordinata e concede loro un minor diritto alla dignità. L'unico modo per correggerla può essere quello di rimuovere la predominanza del linguaggio maschile di Dio dalle nostre Scritture, liturgia e predicazione. Mentre alcuni (come la stessa Daly) si sono spostati verso l'uso esclusivo di un linguaggio femminile terreno e persino neo-pagano per definire la divinità, la maggioranza è in linea con le chiese correnti che condividono la questione fondamentale dell'equilibrio tra riferimenti maschili e femminili (per es., Dio come Padre e Madre) o di un linguaggio del tutto neutro in riferimento a Dio (per es., Creatore, Redentore, Sostenitore per sostituire Padre, Figlio, Spirito Santo)<ref>Vedi, per es., Carol Christ e Judith Plaskow, a cura di, ''Lo spirito della donna in ascesa: una lettrice femminista nella religione'' (San Francisco, Harper &amp;amp;amp; Row, 1979); Virginia Mollenkott, ''Il Divino Femminino: l'immagine biblica di Dio in quanto Femmina'' (New York, Crossroad, 1983); Rosemary Radford Ruether, ''Sessismo e discorso su Dio: verso una teologia femminista'' (Boston, Beacon, 1983); Ruth Duck, ''Genere e Nome di Dio: la formula battesimale trinitariana'' (New York, Pilgrim, 1991); Elizabeth Johnson, ''Colei che è: il mistero di Dio nelle discussioni teologiche femministe'' (New York, Crossroad, 1992); Gail Ramshaw, ''Dio oltre il genere: il linguaggio femminista cristiano su Dio'' (Minneapolis, Fortress, 1995); Ada Besanon Spencer, et al., ''Il Revival della Dea'' (Grand Rapids, Baker, 1995).</ref>.  
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Qui possiamo dedicare soltanto una fugace attenzione alle svariate linee di un argomento in favore di un linguaggio comprensivo riferito a Dio7, ma ci concentreremo in special modo sulla questione della tradizionale formulazione maschile della Trinità. In primo luogo, ci rifacciamo alla natura metaforica del linguaggio maschile di Dio proprio della Bibbia. Tutti concordano che, quando le Scritture chiamano Dio "Padre" oppure "Re", non dobbiamo intendere quelle parole letteralmente come Dio in quanto maschio. Esse servono metaforicamente a indicare funzioni paterne e reali quali provvidenza, protezione e sovranità. Dunque, se Dio è letteralmente colui che provvede, protegge e regna, egli è metaforicamente padre e re. Stando così le cose, obiettano le femministe, dovremmo perciò descrivere Dio con metafore femminili che esprimano alcune tra le funzioni di Dio più specificamente femminili, quali conforto, cura ed empatia. Quindi, se Dio non è (letteralmente) né padre, né madre, le metafore "padre" e "madre" sono ugualmente adatte a descrivere qualità e funzioni di Dio letteralmente vere. Dobbiamo dunque bilanciare i nomi femminili di Dio con quelli tradizionalmente maschili per darne un'immagine più completa, altrimenti dovremmo evitare completamente termini specifici, se il rischio che la gente possa pensare a Dio come a un essere sessuato fosse troppo grande. Applicato al linguaggio per definire la Trinità, i sostenitori del femminismo hanno suggerito di rivedere il linguaggio in entrambe le direzioni. Dobbiamo parlare della prima persona della Trinità come Padre/Madre e della seconda come del Figlio di Dio8, oppure spostarci su un linguaggio trinitario rigorosamente neutro, come Creatore, Redentore e Sostenitore. Entrambi gli approcci trovano supporto nel femminismo corrente e quel che entrambi hanno in comune è l'elusione del linguaggio maschile dominante per il Dio uno e trino, in quanto sia falso che fuorviante.  
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Qui possiamo dedicare soltanto una fugace attenzione alle svariate linee di un argomento in favore di un linguaggio comprensivo riferito a Dio<ref>Per uno studio e critica puntigliosamente ricercati di questa argomentazione, vedi Alvin F. Kimel jr., a cura di, ''Parlare il Dio cristiano: la Sacra Trinità e la sfida del femminismo'' (Grand Rapids, Eerdmans, 1992); John W. Cooper, ''Padre nostro nei cieli: fede cristiana e linguaggio inclusivo di Dio'' (Grand Rapids, Baker, 1998).</ref>, ma ci concentreremo in special modo sulla questione della tradizionale formulazione maschile della Trinità. In primo luogo, ci rifacciamo alla natura metaforica del linguaggio maschile di Dio proprio della Bibbia. Tutti concordano che, quando le Scritture chiamano Dio "Padre" oppure "Re", non dobbiamo intendere quelle parole letteralmente come Dio in quanto maschio. Esse servono metaforicamente a indicare funzioni paterne e reali quali provvidenza, protezione e sovranità. Dunque, se Dio è letteralmente colui che provvede, protegge e regna, egli è metaforicamente padre e re. Stando così le cose, obiettano le femministe, dovremmo perciò descrivere Dio con metafore femminili che esprimano alcune tra le funzioni di Dio più specificamente femminili, quali conforto, cura ed empatia. Quindi, se Dio non è (letteralmente) né padre, né madre, le metafore "padre" e "madre" sono ugualmente adatte a descrivere qualità e funzioni di Dio letteralmente vere. Dobbiamo dunque bilanciare i nomi femminili di Dio con quelli tradizionalmente maschili per darne un'immagine più completa, altrimenti dovremmo evitare completamente termini specifici, se il rischio che la gente possa pensare a Dio come a un essere sessuato fosse troppo grande. Applicato al linguaggio per definire la Trinità, i sostenitori del femminismo hanno suggerito di rivedere il linguaggio in entrambe le direzioni. Dobbiamo parlare della prima persona della Trinità come Padre/Madre e della seconda come del Figlio di Dio<ref>Notare che i credi paleocristiani parlano della seconda persona in quanto "generata" non fatta, che, come tale, non contiene alcuna connotazione di genere. Si può dunque asserire che parlare del Figlio generato del/della Padre/Madre è coerente con il linguaggio della chiesa paleocristiana e ne conserva la continuità, pur apportandovi le dovute correzioni.</ref>, oppure spostarci su un linguaggio trinitario rigorosamente neutro, come Creatore, Redentore e Sostenitore. Entrambi gli approcci trovano supporto nel femminismo corrente e quel che entrambi hanno in comune è l'elusione del linguaggio maschile dominante per il Dio uno e trino, in quanto sia falso che fuorviante.  
In secondo luogo, quando ci si chiede perché il linguaggio biblico e quello tradizionalmente ecclesiastico per definire Dio sia prevalentemente maschile, ci si rende subito conto della natura intrinsecamente condizionata culturalmente del discorso biblico ed ecclesiastico su Dio. La cultura patriarcale in epoca biblica e nel corso della storia della chiesa ha portato a un linguaggio prevalentemente maschile per riferirsi a Dio. Per il femminismo, una volta realizzata tale realtà, la cosa ovvia e necessaria è quella di ridefinire come parliamo di Dio. Possiamo mantenere il linguaggio prevalentemente maschile per riferirci a Dio soltanto a costo di conservare l'illegittimo patriarcato da cui era sorto. Anche se la maggior parte delle femministe non concordassero del tutto con Mary Daly, ne correggerebbero l'affermazione per dire che, se Dio è visto e considerato al maschile, allora quel che è maschile sarebbe visto, naturalmente e inevitabilmente, come più valido e autorevole. Di nuovo, dunque, è necessaria una delle due linee di risposta: dobbiamo bilanciare l'uso maschile tradizionale con un linguaggio femminile appropriato e significativo per riferirci a Dio, oppure dobbiamo abbandonare ogni riferimento specifico.  
In secondo luogo, quando ci si chiede perché il linguaggio biblico e quello tradizionalmente ecclesiastico per definire Dio sia prevalentemente maschile, ci si rende subito conto della natura intrinsecamente condizionata culturalmente del discorso biblico ed ecclesiastico su Dio. La cultura patriarcale in epoca biblica e nel corso della storia della chiesa ha portato a un linguaggio prevalentemente maschile per riferirsi a Dio. Per il femminismo, una volta realizzata tale realtà, la cosa ovvia e necessaria è quella di ridefinire come parliamo di Dio. Possiamo mantenere il linguaggio prevalentemente maschile per riferirci a Dio soltanto a costo di conservare l'illegittimo patriarcato da cui era sorto. Anche se la maggior parte delle femministe non concordassero del tutto con Mary Daly, ne correggerebbero l'affermazione per dire che, se Dio è visto e considerato al maschile, allora quel che è maschile sarebbe visto, naturalmente e inevitabilmente, come più valido e autorevole. Di nuovo, dunque, è necessaria una delle due linee di risposta: dobbiamo bilanciare l'uso maschile tradizionale con un linguaggio femminile appropriato e significativo per riferirci a Dio, oppure dobbiamo abbandonare ogni riferimento specifico.  
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'''La risposta al caso femminista contro il linguaggio maschile della Trinità'''  
'''La risposta al caso femminista contro il linguaggio maschile della Trinità'''  
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Curiosamente, molti rappresentanti delle chiese principali, così come la maggioranza delle femministe evangeliche (cioè egalitarie) al loro interno e senza denominazioni correnti, non concordano con il programma revisionista femminista. Per i più in questo gruppo, pur affermando di identificarsi appieno con i valori e le aspirazioni del femminismo cristiano, tali oppositori dichiarano coraggiosamente che cambiare il linguaggio della Bibbia e tradizione ecclesiastica in cui Dio è rivelato come Padre, Figlio e Spirito Santo, significa mettere in pericolo l'integrità del cristianesimo stesso e promuovere quelle che sono, a tutti gli effetti, un'altra deità e un'altra fede9. Le loro argomentazioni sono complesse e tortuose, ma illustreremo alcune delle questioni più importanti.  
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Curiosamente, molti rappresentanti delle chiese principali, così come la maggioranza delle femministe evangeliche (cioè egalitarie) al loro interno e senza denominazioni correnti, non concordano con il programma revisionista femminista. Per i più in questo gruppo, pur affermando di identificarsi appieno con i valori e le aspirazioni del femminismo cristiano, tali oppositori dichiarano coraggiosamente che cambiare il linguaggio della Bibbia e tradizione ecclesiastica in cui Dio è rivelato come Padre, Figlio e Spirito Santo, significa mettere in pericolo l'integrità del cristianesimo stesso e promuovere quelle che sono, a tutti gli effetti, un'altra deità e un'altra fede<ref>Notare l'eloquente titolo dell'articolo opposto al revisionismo femminista del linguaggio di Dio, cioè Elizabeth Achtemeier, "Scambiare Dio per “Nessun Dio”: una discussione del linguaggio femminile di Dio," in Kimel, a cura di, ''Parlare il Dio cristiano'', 1-16.</ref>. Le loro argomentazioni sono complesse e tortuose, ma illustreremo alcune delle questioni più importanti.  
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Per prima cosa, se è pur vero che la Bibbia usa un linguaggio metaforico maschile per nominare Dio (anche se Dio non è mai letteralmente maschile), è vero anche che la Bibbia non utilizza mai un linguaggio metaforico femminile per ''nominare'' Dio. È vero che di Dio si dice talvolta che sia o agisca in modo ''similmente'' materno (o un'altra accezione femminile)10, ma Dio non viene mai chiamato "Madre" tanto spesso quanto "Padre". Il rispetto per il modo in cui Dio si auto-ritrae nelle Scritture richiede che rispettiamo tale distinzione. Anche se abbiamo ogni diritto (e responsabilità) di usare immagini femminili di Dio, come spesso viene fatto nelle Scritture stesse, non ci è consentito, per un precedente biblico, di andare oltre e nominare Dio in modi in cui egli stesso non si è nominato. Egli ha nominato se stesso "Padre", ma non "Madre". Questo fatto incontestabile delle rivelazioni scritturali deve in se stesso controllare il nostro discorso su Dio.  
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Per prima cosa, se è pur vero che la Bibbia usa un linguaggio metaforico maschile per nominare Dio (anche se Dio non è mai letteralmente maschile), è vero anche che la Bibbia non utilizza mai un linguaggio metaforico femminile per ''nominare'' Dio. È vero che di Dio si dice talvolta che sia o agisca in modo ''similmente'' materno (o un'altra accezione femminile)<ref>Per un'esauriente discussione sui riferimenti biblici a Dio che utilizzano immagini femminili, vedi Cooper, ''Padre nostro nei cieli'', capitolo 3, "Riferimenti femminili e materni a Dio nella Bibbia", 65-90.</ref>, ma Dio non viene mai chiamato "Madre" tanto spesso quanto "Padre". Il rispetto per il modo in cui Dio si auto-ritrae nelle Scritture richiede che rispettiamo tale distinzione. Anche se abbiamo ogni diritto (e responsabilità) di usare immagini femminili di Dio, come spesso viene fatto nelle Scritture stesse, non ci è consentito, per un precedente biblico, di andare oltre e nominare Dio in modi in cui egli stesso non si è nominato. Egli ha nominato se stesso "Padre", ma non "Madre". Questo fatto incontestabile delle rivelazioni scritturali deve in se stesso controllare il nostro discorso su Dio.  
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In secondo luogo, si potrebbe essere tentati di respingere il precedente punto "fattuale" ricorrendo alla cultura intrinsecamente patriarcale in cui il linguaggio biblico di Dio venne formulato. Tuttavia, il ricorso alla cultura mostra solo quanto insolito e persino unico sia per Israele l'aver scelto di usare esclusivamente il linguaggio maschile e non quello femminile per nominare Dio. Il fatto è che la strada più ovvia da prendere per Israele sarebbe stata seguire l'esempio delle nazioni che lo circondavano, che parlavano con regolarità e frequenza delle proprie deità come femminili11. Che Israele decidesse di non farlo mostra la sua resistenza a seguire forti pressioni culturali e mostra che concepì il vero Dio, il Dio di Israele, come distinto da quelle false deità.  
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In secondo luogo, si potrebbe essere tentati di respingere il precedente punto "fattuale" ricorrendo alla cultura intrinsecamente patriarcale in cui il linguaggio biblico di Dio venne formulato. Tuttavia, il ricorso alla cultura mostra solo quanto insolito e persino unico sia per Israele l'aver scelto di usare esclusivamente il linguaggio maschile e non quello femminile per nominare Dio. Il fatto è che la strada più ovvia da prendere per Israele sarebbe stata seguire l'esempio delle nazioni che lo circondavano, che parlavano con regolarità e frequenza delle proprie deità in quanto femminili<ref>Elaine Pagels, "Che ne è stato di Dio Madre? Immagini conflittuali di Dio nel paleocristianesimo", in Christ e Plaskow, a cura di, ''Lo spirito della donna in ascesa'', 107, commenta che "l'assenza di un simbolismo femminile d Dio pone Ebraismo, Cristianesimo e Islam in netto contrasto rispetto alle altre tradizioni religiose nel mondo, quali quelle di Egitto, Babilonia, Grecia e Roma, o Africa, Polinesia, India, e Nord America".</ref>. Che Israele decidesse di non farlo dimostra la sua resistenza a seguire forti pressioni culturali e che concepì il vero Dio, il Dio di Israele, come distinto da quelle false deità.  
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Nel difendere la propia asserzione che "il linguaggio biblico per Dio è maschile, una rivelazione unica di Dio nel mondo", Elizabeth Achtemeier prosegue:  
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Nel difendere la propria asserzione che "il linguaggio biblico per Dio è maschile, una rivelazione unica di Dio nel mondo", Elizabeth Achtemeier prosegue:  
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:La ragione primaria per quella designazione di Dio è che il Dio biblico non si lascia identificare con la sua creazione e dunque gli essere umani devono adorare non la creazione, bensì il Creatore... In ogni caso, è esattamente l'introduzione del linguaggio femminile per Dio che apre la porta a tale identificazione di Dio con il mondo12.
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:La ragione primaria per quella designazione di Dio è che il Dio biblico non si lascia identificare con la sua creazione e dunque gli essere umani devono adorare non la creazione, bensì il Creatore... In ogni caso, è esattamente l'introduzione del linguaggio femminile per Dio che apre la porta a tale identificazione di Dio con il mondo<ref>Achtemeier, "Scambiare Dio per “Nessun Dio”", 8-9.</ref>.
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Che si segua completamente o meno Achtemeier su questo punto13, risulta evidente che le Scritture non nominano mai Dio come "Madre" o con altre attribuzioni femminili e ciò va chiaramente contro la pratica prevalente delle culture circostanti Israele e la chiesa paleocristiana.  
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Che si segua completamente o meno Achtemeier su questo punto<ref>Vedi ibid. 12, in cui Achtemeier riconosce che molte femministe neghino che nominare Dio al femminile leghi Dio alla creazione, ma asserisce e quindi sostiene con numerose citazioni: "Ma gli stessi scritti femministi dimostrano che lo fa".</ref>, risulta evidente che le Scritture non nominano mai Dio come "Madre" o con altre attribuzioni femminili e ciò va chiaramente contro la pratica prevalente delle culture circostanti Israele e la chiesa paleocristiana.  
Terzo punto, mentre le Scritture di sicuro non riflettono il variegato ambiente storico e culturale in cui furono scritte, il Dio biblico è presentato, essenzialmente, per auto-rivelazione o auto-manifestazione. Il linguaggio biblico di Dio, dunque, deve essere ricevuto con rispetto e gratitudine come il messaggero divinamente consacrato della verità che Dio stesso intendeva far sapere di sé al proprio popolo. Alterare il linguaggio biblico di Dio è negare e respingere l'auto-manifestazione di Dio nei termini in cui egli scelse e che usò nel rivelarsi a noi. Chiaramente, all'apice dell'auto-manifestazione divina sta la rivelazione di Gesù Cristo che si incarnò, in cui potemmo conoscere in forma visibile e fisica l'aspetto di Dio (Giovanni 1,14-18).  
Terzo punto, mentre le Scritture di sicuro non riflettono il variegato ambiente storico e culturale in cui furono scritte, il Dio biblico è presentato, essenzialmente, per auto-rivelazione o auto-manifestazione. Il linguaggio biblico di Dio, dunque, deve essere ricevuto con rispetto e gratitudine come il messaggero divinamente consacrato della verità che Dio stesso intendeva far sapere di sé al proprio popolo. Alterare il linguaggio biblico di Dio è negare e respingere l'auto-manifestazione di Dio nei termini in cui egli scelse e che usò nel rivelarsi a noi. Chiaramente, all'apice dell'auto-manifestazione divina sta la rivelazione di Gesù Cristo che si incarnò, in cui potemmo conoscere in forma visibile e fisica l'aspetto di Dio (Giovanni 1,14-18).  
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E qui, con scioccante regolarità, Gesù fa riferimento a Dio in una maniera scandalosa per i suoi ascoltatori ebrei, come a nient'altro se non "Padre". Che Gesù sia il ''Figlio'' inviato dal ''Padre'' è così profondamente e ampiamente il riflesso dell'auto-rivelazione divina nell'incarnazione e tramite essa, che alterare questo linguaggio sta a suggerire, sebbene solo implicitamente, che si parla invece di tutt'altra deità. L'auto-rivelazione, dunque, richiede il gioioso mantenimento di Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo.  
E qui, con scioccante regolarità, Gesù fa riferimento a Dio in una maniera scandalosa per i suoi ascoltatori ebrei, come a nient'altro se non "Padre". Che Gesù sia il ''Figlio'' inviato dal ''Padre'' è così profondamente e ampiamente il riflesso dell'auto-rivelazione divina nell'incarnazione e tramite essa, che alterare questo linguaggio sta a suggerire, sebbene solo implicitamente, che si parla invece di tutt'altra deità. L'auto-rivelazione, dunque, richiede il gioioso mantenimento di Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo.  
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Quarto punto, menzioniamo un ultimo avvertimento. Per il revisionismo femminista può essere scontato che il linguaggio biblico parli del Dio uno e trino in quanto Padre, Figlio e Spirito Santo, ma, continuano i revisionisti, quelle stesse scritture utilizzano inoltre il linguaggio di Dio in quanto creatore, redentore e sostenitore. Non possiamo usare quest'altro linguaggio biblico di Dio in chiesa e, con questo, onorare l'auto-rivelazione divina, e insieme evitare l'equazione illegittima di Dio con la mascolinità che si rischia con il tradizionale linguaggio maschile?  
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Quarto punto, menzioniamo un ultimo avvertimento. Per il revisionismo femminista può essere scontato che il linguaggio biblico parli del Dio uno e trino in quanto Padre, Figlio e Spirito Santo, ma, continuano i revisionisti, quelle stesse scritture utilizzano inoltre il linguaggio di Dio in quanto creatore, redentore e sostenitore. Non possiamo usare quest'altro linguaggio biblico di Dio in chiesa e, con questo, onorare l'auto-rivelazione divina, evitando nel contempo l'equazione illegittima di Dio con la mascolinità che si rischia con il tradizionale linguaggio maschile?  
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Anche se i termini "Creatore, Redentore e Sostenitore" sono termini biblici per Dio, non possono funzionare come sostituti per le persone della Deità nominata "Padre, Figlio e Spirito Santo". Ci sono almeno tre motivi per cui questa sostituzione è inaccettabile. Primo, si rischia una comprensione modalista di Dio in cui egli è per prima cosa creatore, per poi passare alla successiva fase storica di redentore e parimenti di sostenitore. Le fasi e gli aspetti dell'attività si possono facilmente vedere come modi storici della manifestazione dell'unico Dio, come sostenuto da Sabellio e gli altri modalisti. Secondo, questa sostituzione suggerisce che il mondo è eterno, non temporalmente finito, e che l'opera redentrice di Dio è necessaria, non libera. L'affermazione ecclesiastica di Dio come "Padre, Figlio e Spirito" è un'asserzione, non puramente della sua manifestazione secolare come Padre del Figlio incarnato nel potere dello Spirito (anche se questo è, in parte, vero), ma pure della trinità immanente che è ''eternamente'' Padre, Figlio e Spirito. Il Padre, dunque, è il Padre ''eterno'' del Figlio; il Figlio è il Figlio eterno del Padre. Ora, se sostituiamo "Creatore, Redentore e Sostenitore" come nomi per queste realtà ''eterne'', ciò richiede che vediamo Dio come Creatore eterno, il che suggerisce una creazione eterna, e Redentore eterno, il che suggerisce una redenzione necessaria. È chiaro che se "Padre, Figlio e Spirito" funzionano bene come nomi delle Persone trinitarie immanenti e secolari, "Creatore, Redentore e Sostenitore" sono designazioni puramente secolari e funzionali. In quanto tali, non possono semplicemente sostituire il linguaggio delle Scritture e tradizione ecclesiastica del Dio eterno che è in Se Stesso (cioè in modo immanente ed eterno) e in relazione al Padre, Figlio e Spirito della creazione (cioè in modo secolare). Terzo, i nomi personali di Padre, Figlio e Spirito Santo semplicemente non si riducono ai presunti sostituti funzionali di Creatore, Redentore e Sostenitore14. È il Padre, e il Padre solo, Creatore? È il Figlio Redentore? È lo Spirito Santo Sostenitore? L'insegnamento biblico ci istruisce che ciascuna di queste attività è compiuta da tutte e tre le persone divine che operano insieme. Sì, il Padre crea, ma lo fa tramite il potere della propria Parola (Giovanni 1,3) che agisce come realizzatore del proprio disegno creativo (Colossesi 1,16). Lo Spirito, parimenti, dà energia alla formazione dell'opera creativa del Padre attraverso il Figlio (Genesi 1,2). Allo stesso modo, la redenzione viene vanificata se l'opera di redenzione è ridotta a quella di seconda persona della Trinità. Biblicamente, la redenzione avviene solo se il Padre invia il Figlio nel mondo perché riceva l'ira del Padre contro di lui per i nostri peccati (2Corinzi 5,21). E naturalmente il Figlio compie tale opera soltanto per il potere dello Spirito che incombe su di lui e lo rende capace di andare sulla croce (Ebrei 9,14) e di resuscitare dai morti (Romani 8,11). E parimenti con Sostegno e Santificazione, è opera del Padre (1Tessalonicesi 5,23-24), del Figlio (Efesini 5,25-27) e dello Spirito Santo (2Corinzi 3,18) quello di proteggere i credenti e spingerli a essere santi nella vita e nel carattere destinati loro da tutta l'eternità (Efesini 1,4). Ci rendiamo conto che la sostituizione di "Padre, Figlio e Spirito Santo" con "Creatore, Redentore e Sostenitore" non solo fallisce come equivalente funzionale della tradizionale formula biblica trinitariana, ma, quel che è peggio, se seguita, sfocerebbe in tali gravi distorsioni teologiche che la fede che ne risulterebbe non avrebbe che una vaga somiglianza con quella della vera religione biblica e cristiana. Come asserisce Wainwright: "Esaminare la creazione, redenzione e santificazione mostra che un'affermazione di queste che sia fedele alla narrativa biblica contiene e si basa sulla comunione e cooperazione trinitaria di Padre, Figlio e Spirito Santo"15.  
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Anche se i termini "Creatore, Redentore e Sostenitore" sono termini biblici per Dio, non possono funzionare come sostituti per le persone della Deità nominata "Padre, Figlio e Spirito Santo". Ci sono almeno tre motivi per cui questa sostituzione è inaccettabile. Primo, si rischia una comprensione modalista di Dio in cui egli è per prima cosa creatore, per poi passare alla successiva fase storica di redentore e parimenti di sostenitore. Le fasi e gli aspetti dell'attività si possono facilmente vedere come modi storici della manifestazione dell'unico Dio, come sostenuto da Sabellio e gli altri modalisti. Secondo, questa sostituzione suggerisce che il mondo è eterno, non temporalmente finito, e che l'opera redentrice di Dio è necessaria, non libera. L'affermazione ecclesiastica di Dio come "Padre, Figlio e Spirito" è un'asserzione, non puramente della sua manifestazione secolare come Padre del Figlio incarnato nel potere dello Spirito (anche se questo è in parte vero), ma pure della trinità immanente che è ''eternamente'' Padre, Figlio e Spirito. Il Padre, dunque, è il Padre ''eterno'' del Figlio; il Figlio è il Figlio eterno del Padre. Ora, se sostituiamo "Creatore, Redentore e Sostenitore" come nomi per queste realtà ''eterne'', ciò richiede che vediamo Dio come Creatore eterno, il che suggerisce una creazione eterna, e Redentore eterno, il che suggerisce una redenzione necessaria. È chiaro che se "Padre, Figlio e Spirito" funzionano bene come nomi delle Persone trinitarie immanenti e secolari, "Creatore, Redentore e Sostenitore" sono designazioni puramente secolari e funzionali. In quanto tali, non possono semplicemente sostituire il linguaggio delle Scritture e tradizione ecclesiastica del Dio eterno che è in Se Stesso (cioè in modo immanente ed eterno) e in relazione al Padre, Figlio e Spirito della creazione (cioè in modo secolare). Terzo, i nomi personali di Padre, Figlio e Spirito Santo semplicemente non si riducono ai presunti sostituti funzionali di Creatore, Redentore e Sostenitore<ref>Karl Barth, ''La teologia dottrinale della Chiesa'', 4 vol. in 13 parti (Edimburgo, T. &amp;amp;amp; T. Clark, 1936-1969), I. 2., 878-879, scrive: "Il contenuto della dottrina della Trinità . . . non consiste nel fatto che Dio nella Sua relazione all'uomo sia Creatore, Mediatore e Redentore, ma che Dio in Se stesso è eternamente Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. . . . [Dio] non può essere dissolto nella Propria opera e attività".</ref>. È il Padre, e il Padre solo, Creatore? È il Figlio Redentore? È lo Spirito Santo Sostenitore? L'insegnamento biblico ci istruisce che ciascuna di queste attività è compiuta da tutte e tre le persone divine che operano insieme. Sì, il Padre crea, ma lo fa tramite il potere della propria Parola (Giovanni 1,3) e agisce come realizzatore del proprio disegno creativo (Colossesi 1,16). Lo Spirito, parimenti, dà energia alla formazione dell'opera creativa del Padre attraverso il Figlio (Genesi 1,2). Allo stesso modo, la redenzione viene vanificata se l'opera di redenzione è ridotta a quella di seconda persona della Trinità. Biblicamente, la redenzione avviene solo se il Padre invia il Figlio nel mondo perché riceva l'ira del Padre contro di lui per i nostri peccati (2Corinzi 5,21). E naturalmente il Figlio compie tale opera soltanto per il potere dello Spirito che incombe su di lui e lo rende capace di andare sulla croce (Ebrei 9,14) e di resuscitare dai morti (Romani 8,11). E parimenti con Sostegno e Santificazione, è opera del Padre (1Tessalonicesi 5,23-24), del Figlio (Efesini 5,25-27) e dello Spirito Santo (2Corinzi 3,18) quello di proteggere i credenti e spingerli a essere santi nella vita e nel carattere destinati loro da tutta l'eternità (Efesini 1,4). Ci rendiamo conto che la sostituzione di "Padre, Figlio e Spirito Santo" con "Creatore, Redentore e Sostenitore" non solo fallisce come equivalente funzionale della tradizionale formula biblica trinitariana, ma, quel che è peggio, se seguita, sfocerebbe in tali gravi distorsioni teologiche che la fede che ne risulterebbe non avrebbe che una vaga somiglianza con quella della vera religione biblica e cristiana. Come asserisce Wainwright: "Esaminare la creazione, redenzione e santificazione mostra che un'affermazione di queste che sia fedele alla narrativa biblica contiene e si basa sulla comunione e cooperazione trinitaria di Padre, Figlio e Spirito Santo"<ref>Wainwright, "La dottrina della Trinità", 123.</ref>.  
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=== Il rifiuto del femminismo evangelico del subordinazionismo funzionale eterno nell'ambito di Dio uno e trino ===
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=== Il rifiuto del femminismo evangelico del subordinazionismo funzionale eterno nell'ambito di Dio uno e trino ===
'''Come il femminismo evangelico accoglie il linguaggio maschile trinitario e respinge la subordinazione funzionale intra-trinitaria'''  
'''Come il femminismo evangelico accoglie il linguaggio maschile trinitario e respinge la subordinazione funzionale intra-trinitaria'''  
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Le femministe evangeliche, note anche come egalitarie, generalmente preferiscono conservare il tradizionale linguaggio maschile trinitario. Per i motivi elencati in precedenza, in particolare perché le Scritture sono per loro la parola ispirata e l'auto-rivelazione di Dio, la vasta maggioranza delle egalitarie ha cercato di difendere il linguaggio maschile di Dio contro le critiche di molte delle loro colleghe femministe. Nel processo, tuttavia, esse negano che tale linguaggio maschile implichi in qualche modo 1) la superiorità di quel che è maschile sul femminile o 2) che le relazioni eterne di Padre, Figlio e Spirito Santo indichino un qualsiasi tipo di gerarchia funzionale eterna nella Trinità.  
Le femministe evangeliche, note anche come egalitarie, generalmente preferiscono conservare il tradizionale linguaggio maschile trinitario. Per i motivi elencati in precedenza, in particolare perché le Scritture sono per loro la parola ispirata e l'auto-rivelazione di Dio, la vasta maggioranza delle egalitarie ha cercato di difendere il linguaggio maschile di Dio contro le critiche di molte delle loro colleghe femministe. Nel processo, tuttavia, esse negano che tale linguaggio maschile implichi in qualche modo 1) la superiorità di quel che è maschile sul femminile o 2) che le relazioni eterne di Padre, Figlio e Spirito Santo indichino un qualsiasi tipo di gerarchia funzionale eterna nella Trinità.  
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Diciamo pure chiaramente che gli evangelici16 non-egalitari e complementariani concordano pienamente con la prima di queste negazioni. Poiché Dio creò l'uomo e la donna a propria immagine e somiglianza (Genesi 1,26-27), è evidente che l'uso del linguaggio maschile non vuole segnalare un presunto maggior valore, dignità o importanza. Inoltre, che uomini e donne siano ugualmente redenti dal Salvatore, e che il marito credente debba garantire alla propria moglie credente onore in quanto "coeredi della grazia della vita" (1Pietro 3,7) dimostra anche la totale uguaglianza dell'individualità e del valore conferiti a uomini e donne, mediante sia la creazione che la redenzione, dal nostro Dio misericordioso. Gli evangelici egalitari e complementariani quindi concordano sul fatto che il linguaggio biblico maschile di Dio non indichi in nessun modo l'essenziale superiorità o il maggior valore del maschile sul femminile. Entrambi gli uomini e le donne sono, nella creazione e nella redenzione, stimati, ricercati e amati da Dio in egual misura; le donne sono uguali agli uomini dinnanzi a Dio in status, dignità, valore e individualità umana.  
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Diciamo pure chiaramente che gli evangelici<ref>Il termine "complementariano" è l'auto-designazione del collegio evangelico che vedrebbe nel disegno di Dio per gli uomini e le donne l'inclusione della leadership maschile nell'ordine creato, la quale riflette se stessa nell'esigenza di qualificati presbiteri uomini nella chiesa e nell'onnicomprensiva responsabilità del marito nella leadership domestica. Il singolo miglior libro che descriva e difenda la visione complementariana è John Piper e Wayne Grudem, a cura di, ''Recuperare la mascolinità e femminilità bibliche'' (Wheaton, Crossway Books, 1991).</ref> non-egalitari e complementariani concordano pienamente con la prima di queste negazioni. Poiché Dio creò l'uomo e la donna a propria immagine e somiglianza (Genesi 1,26-27), è evidente che l'uso del linguaggio maschile non vuole segnalare un presunto maggior valore, dignità o importanza. Inoltre, che uomini e donne siano ugualmente redenti dal Salvatore, e che il marito credente debba garantire alla propria moglie credente onore in quanto "coeredi della grazia della vita" (1Pietro 3,7) dimostra anche la totale uguaglianza dell'individualità e del valore conferiti a uomini e donne, mediante sia la creazione che la redenzione, dal nostro Dio misericordioso. Gli evangelici egalitari e complementariani quindi concordano sul fatto che il linguaggio biblico maschile di Dio non indichi in nessun modo l'essenziale superiorità o il maggior valore del maschile sul femminile. Entrambi gli uomini e le donne sono, nella creazione e nella redenzione, stimati, ricercati e amati da Dio in egual misura; le donne sono uguali agli uomini dinnanzi a Dio in status, dignità, valore e individualità umana.  
Riguardo la seconda negazione, tuttavia, vi è un motivo significativo per sfidare la posizione egalitaria. Se, dibattono gli egalitari, il linguaggio maschile di Dio nelle Scritture non è una concessione alla cultura patriarcale, ma rappresenta piuttosto gli strumenti che Dio stesso ha scelti per auto-manifestarsi, che cosa viene comunicato da questa terminologia maschile? Il linguaggio maschile non collega intenzionalmente la posizione e autorità divine come ''Dio'' al concetto di ''mascolinità'' sulla femminilità? Inoltre, che cosa significa che il Padre è l'eterno ''Padre'' del Figlio e che il Figlio è l'eterno ''Figlio'' del Padre? La relazione Padre-Figlio nell'ambito della Trinità immanente è forse indicativa di una qualche eterna relazione di autorità ''nell'ambito'' della stessa Trinità?  
Riguardo la seconda negazione, tuttavia, vi è un motivo significativo per sfidare la posizione egalitaria. Se, dibattono gli egalitari, il linguaggio maschile di Dio nelle Scritture non è una concessione alla cultura patriarcale, ma rappresenta piuttosto gli strumenti che Dio stesso ha scelti per auto-manifestarsi, che cosa viene comunicato da questa terminologia maschile? Il linguaggio maschile non collega intenzionalmente la posizione e autorità divine come ''Dio'' al concetto di ''mascolinità'' sulla femminilità? Inoltre, che cosa significa che il Padre è l'eterno ''Padre'' del Figlio e che il Figlio è l'eterno ''Figlio'' del Padre? La relazione Padre-Figlio nell'ambito della Trinità immanente è forse indicativa di una qualche eterna relazione di autorità ''nell'ambito'' della stessa Trinità?  
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Gli egalitari respingono queste implicazioni17. Essi vedono chiaramente che, se una relazione eterna di autorità e obbedienza è fondata sulle relazioni eterne immanenti intra-trinitarie di Padre, Figlio e Spirito Santo, allora questo offre almeno una giustificazione ''prima facie'' della nozione delle relazioni umane creazionali di cui autorità e sottomissione fanno parte18. Eppure entrambe le caratteristiche della visione ortodossa summenzionata potrebbero voler suggerire una tale corrispondenza. Ovvero, sia il prevalente linguaggio maschile per Dio, sia l'eterna natura della relazione Padre-Figlio nell'ambito della Deità potrebbero condurci a pensare che l'autorità e l'obbedienza siano radicate nella Trinità, e che quella autorità corrisponda, in qualche modo speciale, alla mascolinità.  
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Gli egalitari respingono queste implicazioni<ref>Vedi per es. Gilbert Bilezikian, "Bungee-jumping ermeneutico: la subordinazione nella Deità", ''Rivista della Società teologica evangelica'', 40/1 (marzo 1997) 57-68; Stanley J. Grenz, "Fondamenti teologici nelle relazioni tra uomo e donna", ''Rivista della Società teologica evangelica'' 41/4 (dicembre 1998) 615-630; Royce G. Gruenler, ''La Trinità nel vangelo secondo Giovanni: commento tematico sul Quarto Vangelo'' (Grand Rapids, Baker, 1986); Millard Erickson, Dio in tre persone: un'interpretazione contemporanea della Trinità (Grand Rapids, Baker, 1995).</ref>. Essi vedono chiaramente che, se una relazione eterna di autorità e obbedienza è fondata sulle relazioni eterne immanenti intra-trinitarie di Padre, Figlio e Spirito Santo, allora questo offre almeno una giustificazione ''prima facie'' della nozione delle relazioni umane creazionali di cui autorità e sottomissione fanno parte<ref>Alcuni egalitariani riconoscono l'eterna relazione intra-trinitariana Padre-Figlio, tuttavia non la intendono come implicante o comportante relazioni di autorità e sottomissione nell'ordine creato. Vedi Craig Keener, "La subordinazione nell'ambito della Trinità è davvero un'eresia? Uno studio di Giovanni 5,18 in contesto", ''La Rivista della Trinità'' 20 NS (1999) 39-51.</ref>. Eppure entrambe le caratteristiche della visione ortodossa summenzionata potrebbero voler suggerire una tale corrispondenza. Ovvero, sia il prevalente linguaggio maschile per Dio, sia l'eterna natura della relazione Padre-Figlio nell'ambito della Deità potrebbero condurci a pensare che l'autorità e l'obbedienza siano radicate nella Trinità, e che quella autorità corrisponda, in qualche modo speciale, alla mascolinità.  
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Per controbattere queste linee di pensiero, gli egalitari sostengono fondamentalmente tre idee. Con la prima asseriscono che i prevalenti riferimenti maschili a Dio non trasmettono in alcun modo una qualche autorità corrispondente attribuita a quel che è maschile. Come abbiamo già visto in precedenza, il fatto che uomini e donne siano stati creati a immagine e somiglianza di Dio dimostra che non c'è subordinazione del femminile al maschile; (soltanto) l'uguaglianza caratterizza la loro relazione come esseri umani. Nelle parole di Paul Jewett, affermare la subordinazione funzionale delle donne agli uomini in qualsiasi rispetto non può evitare l'accusa che le donne siano di conseguenza inferiori agli uomini19. Tuttavia, l'aver creato uomo e donna a immagine di Dio rende ciò impossibile. La mascolinità non è mai intrinsecamente superiore, sebbene sia, innegabilmente, il genere in cui Dio ha scelto di nominare se stesso più comunemente.  
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Per controbattere queste linee di pensiero, gli egalitari sostengono fondamentalmente tre idee. Con la prima asseriscono che i prevalenti riferimenti maschili a Dio non trasmettono in alcun modo una qualche autorità corrispondente attribuita a quel che è maschile. Come abbiamo già visto in precedenza, il fatto che uomini e donne siano stati creati a immagine e somiglianza di Dio dimostra che non c'è subordinazione del femminile al maschile; (soltanto) l'uguaglianza caratterizza la loro relazione come esseri umani. Nelle parole di Paul Jewett, affermare la subordinazione funzionale delle donne agli uomini in qualsiasi rispetto non può evitare l'accusa che le donne siano di conseguenza inferiori agli uomini<ref>Vedi per es. Paul K. Jewett, ''L'Uomo come maschio e femmina: studio delle relazioni dal punto di vista teologico'' (Grand Rapids, Eerdmans, 1975), in cui si chiede: "Come si può difendere una gerarchia sessuale secondo la quale gli uomini sono al di sopra delle donne . . . senza dedurne che la metà del genere umano che esercita l'autorità sia in qualche modo superiore all'altra che si sottomette?" (p. 71). L'autore prosegue domandandosi inoltre se qualcuno possa "determinare il punto controverso, la subordinazione della donna all'uomo, evidenziando il punto ovvio, la differenza tra donna e uomo, senza far ricorso a quello tradizionale, l'inferiorità della donna rispetto all'uomo? La risposta, così ci sembra, è no" (p. 84).</ref>. Tuttavia, l'aver creato uomo e donna a immagine di Dio rende ciò impossibile. La mascolinità non è mai intrinsecamente superiore, sebbene sia, innegabilmente, il genere in cui Dio ha scelto di nominare se stesso più comunemente.  
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Con la seconda asseriscono che qualsiasi suggerimento di subordinazione nella Deità, persino l'affermazione di una subordinazione funzionale del Figlio al Padre, non può evitare almeno un implicito arianesimo20. I teologi paleocristiani, verosimilmente, respingevano qualsiasi argomento sulla subordinazione di un qualsiasi membro della Trinità a un qualsiasi altro. La completa uguaglianza di Padre, Figlio e Spirito Santo preclude qualsiasi tipo di subordinazionismo. Poiché il Figlio è ''homoousios'', cioè consustanziale, con il Padre sbagliamo comunque nel parlare dello status subordinato del Figlio al Padre e, facendo questo, miniamo la vittoria dell'ortodossia di Attanasio a Nicea e proclamata sin da allora dalla chiesa.  
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Con la seconda asseriscono che qualsiasi suggerimento di subordinazione nella Deità, persino l'affermazione di una subordinazione funzionale del Figlio al Padre, non può evitare almeno un implicito arianesimo<ref>Bilezikian, "Bungee-jumping ermeneutico", 67, dice per es. che qualsiasi discorso sulla subordinazione "sa di eresia ariana".</ref>. I teologi paleocristiani, verosimilmente, respingevano qualsiasi argomento sulla subordinazione di un qualsiasi membro della Trinità a un qualsiasi altro. La completa uguaglianza di Padre, Figlio e Spirito Santo preclude qualsiasi tipo di subordinazionismo. Poiché il Figlio è ''homoousios'', cioè consustanziale, con il Padre sbagliamo comunque nel parlare dello status subordinato del Figlio al Padre e, facendo questo, miniamo la vittoria dell'ortodossia di Attanasio a Nicea e proclamata sin da allora dalla chiesa.  
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Con la terza, tutto il linguaggio scritturale dell'autorità del Padre e della sottomissione del Figlio è solo e giustamente considerato nell'ambito della missione incarnazionale del Figlio. Precisamente qui, come Dio incarnato, poiché Cristo era il secondo Adamo e completamente umano, era necessario che si assoggettasse alla volontà del Padre. Perciò, come afferma Gilbert Bilezikian: "Cristo non si assunse il compito della redenzione del mondo perché era il numero due nella Trinità e il suo capo gli aveva detto di farlo o perché era stato declassato a un rango subordinato così da poter portare a termine un compito che nessun altro voleva neppure toccare"21. Per di più, una volta completata la missione di redenzione, il Figlio riassunse la posizione precedente e la piena uguaglianza nella Trinità, lasciandosi per sempre dietro il ruolo in cui aveva dovuto sottomettersi in obbedienza al Padre. Come Bilezikian commenta ancora: "Poiché non vi era subordinazione all'interno della Trinità prima dell'incarnazione della Seconda Persona, non ne rimarrà nulla dopo il suo completamento. Se dobbiamo parlare di subordinazione, si tratta soltanto di subordinazione funzionale o economica che appartiene esclusivamente al ruolo di Cristo in relazione alla storia umana"22. Così, se il linguaggio maschile predomina nella rappresentazione biblica di Dio, e se la relazione divina Padre-Figlio è eterna, niente di tutto ciò dimostra una relazione di autorità e obbedienza alla Deità, o una corrispondente relazione di autorità e sottomissione nelle relazioni umane.  
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Con la terza, tutto il linguaggio scritturale dell'autorità del Padre e della sottomissione del Figlio è solo e giustamente considerato nell'ambito della missione incarnazionale del Figlio. Precisamente qui, come Dio incarnato, poiché Cristo era il secondo Adamo e completamente umano, era necessario che si assoggettasse alla volontà del Padre. Perciò, come afferma Gilbert Bilezikian: "Cristo non si assunse il compito della redenzione del mondo perché era il numero due nella Trinità e il suo capo gli aveva detto di farlo o perché era stato declassato a un rango subordinato così da poter portare a termine un compito che nessun altro voleva neppure toccare"<ref>Ibid., 59.</ref>. Per di più, una volta completata la missione di redenzione, il Figlio riassunse la posizione precedente e la piena uguaglianza nella Trinità, lasciandosi per sempre dietro il ruolo in cui aveva dovuto sottomettersi in obbedienza al Padre. Come Bilezikian commenta ancora: "Poiché non vi era subordinazione all'interno della Trinità prima dell'incarnazione della Seconda Persona, non ne rimarrà nulla dopo il suo completamento. Se dobbiamo parlare di subordinazione, si tratta soltanto di subordinazione funzionale o economica che appartiene esclusivamente al ruolo di Cristo in relazione alla storia umana"<ref>Ibid., 60.</ref>. Così, se il linguaggio maschile predomina nella rappresentazione biblica di Dio, e se la relazione divina Padre-Figlio è eterna, niente di tutto ciò dimostra una relazione di autorità e obbedienza alla Deità, o una corrispondente relazione di autorità e sottomissione nelle relazioni umane.  
'''La risposta all'accettazione egalitaria del linguaggio maschile trinitario e al rifiuto della subordinazione funzionale intra-trinitaria'''  
'''La risposta all'accettazione egalitaria del linguaggio maschile trinitario e al rifiuto della subordinazione funzionale intra-trinitaria'''  
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Innanzi tutto, l'egalitarianismo si trova in una posizione difficile. Esso afferma la predominanza dei riferimenti biblici maschili per Dio, eppure sembra incapace, logicamente, di spiegare l'uso divinamente scelto del linguaggio maschile. È un dato di fatto, possiamo ribattere, come abbiamo visto prima con Achtemeier, che riferirsi a Dio col femminile risulterebbe in una confusione tra Creatore e creazione. Deve però essere per forza così? Persino Achtemeier ammette di no, malgrado sia convinta che probabilmente lo sarà. Tuttavia, se Dio stesso pensava e credeva nello stesso modo degli egalitari, non avrebbe potuto superare la presunta confusione erronea tra Creatore e creatura che ne sarebbe risultata, se avesse scelto così, deliberatamente, di utilizzare metafore maschili e femminili nella stessa proporzione? Egli poteva certamente rendere chiaro, come ha fatto, di essere Spirito e non un essere sessuato o ascrivibile a un genere. Inoltre, avrebbe potuto chiarire che, quando si riferisce a se stesso come Madre, non sta con ciò comunicando una connessione ontologica con il mondo. Dunque trovo difficile accogliere questa come una risposta completa e accettabile alla domanda su come mai Dio avesse scelto di nominarsi in termini maschili, ma mai femminili.  
Innanzi tutto, l'egalitarianismo si trova in una posizione difficile. Esso afferma la predominanza dei riferimenti biblici maschili per Dio, eppure sembra incapace, logicamente, di spiegare l'uso divinamente scelto del linguaggio maschile. È un dato di fatto, possiamo ribattere, come abbiamo visto prima con Achtemeier, che riferirsi a Dio col femminile risulterebbe in una confusione tra Creatore e creazione. Deve però essere per forza così? Persino Achtemeier ammette di no, malgrado sia convinta che probabilmente lo sarà. Tuttavia, se Dio stesso pensava e credeva nello stesso modo degli egalitari, non avrebbe potuto superare la presunta confusione erronea tra Creatore e creatura che ne sarebbe risultata, se avesse scelto così, deliberatamente, di utilizzare metafore maschili e femminili nella stessa proporzione? Egli poteva certamente rendere chiaro, come ha fatto, di essere Spirito e non un essere sessuato o ascrivibile a un genere. Inoltre, avrebbe potuto chiarire che, quando si riferisce a se stesso come Madre, non sta con ciò comunicando una connessione ontologica con il mondo. Dunque trovo difficile accogliere questa come una risposta completa e accettabile alla domanda su come mai Dio avesse scelto di nominarsi in termini maschili, ma mai femminili.  
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C'è un'altra ovvia ragione, una con cui gli egalitari sembrano scontrarsi regolarmente senza riconoscerla per quel che è. Per esempio, nelle riflessioni di Wainwright su Dio come "Padre", egli nota che: "Padre era il nome che la seconda persona nella sua umana esistenza considerò più appropriato per rivolgersi alla prima persona". Ma perché è così? A questa domanda Wainwright può solo replicare che "deve esserci ... qualcosa nella paternità umana che rende Padre un modo appropriato per Gesù di denominare colui che lo aveva inviato. In termini trinitari, il punto cruciale è che Padre era il modo di rivolgersi che Gesù usò tipicamente in questa connessione"23. Comunque, che cosa insomma sia quel "qualcosa", Wainwright non ce lo dice. Eppure non è ovvio? Gesù ripeté durante tutto il proprio ministero di essere venuto per fare la ''volontà'' del ''Padre''. Chiaramente, una parte centrale della nozione di "Padre" è quella dell'autorità paterna. Certamente essere padre non finisce lì, ma se anche c'è di più, vi è sicuramente non di meno o altro. La terminologia maschile usata per definire Dio nelle Scritture trasmetteva, nell'ambito delle culture patriarcali di Israele e della chiesa paleocristiana, l'ovvio concetto che Dio, descritto in modi maschili, esercitava l'autorità sul proprio popolo. Padre, Re e Signore comunicavano, con il loro riferimento al genere maschile, una legittima autorità che si doveva rispettare e seguire. Malachia 1,6 per esempio, indica proprio questa connessione tra padre e autorità. Egli scrive: "“Un figlio onora il padre e un servo il padrone. Se sono un padre, dov'è l'onore che mi è dovuto? Se sono un padrone, dov'è il rispetto che mi è dovuto?”, dice il SIGNORE Onnipotente". Dio come Padre merita legittimamente l'onore, il rispetto e l'obbedienza dei propri figli. Non riuscire a vedere ciò vuol dire lasciarsi sfuggire uno dei motivi principali per cui Dio scelse la terminologia maschile per nominare se stesso.  
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C'è un'altra ovvia ragione, una con cui gli egalitari sembrano scontrarsi regolarmente senza riconoscerla per quel che è. Per esempio, nelle riflessioni di Wainwright su Dio come "Padre", egli nota che: "Padre era il nome che la seconda persona nella sua umana esistenza considerò più appropriato per rivolgersi alla prima persona". Ma perché è così? A questa domanda Wainwright può solo replicare che "deve esserci ... qualcosa nella paternità umana che rende Padre un modo appropriato per Gesù di denominare colui che lo aveva inviato. In termini trinitari, il punto cruciale è che Padre era il modo di rivolgersi che Gesù usò tipicamente in questa connessione"<ref>Wainwright, "La dottrina della Trinità", 120 (corsivo aggiunto).</ref>. Comunque, che cosa insomma sia quel "qualcosa", Wainwright non ce lo dice. Eppure non è ovvio? Gesù ripeté durante tutto il proprio ministero di essere venuto per fare la ''volontà'' del ''Padre''. Chiaramente, una parte centrale della nozione di "Padre" è quella dell'autorità paterna. Certamente essere padre non finisce lì, ma se anche c'è di più, vi è sicuramente non di meno o altro. La terminologia maschile usata per definire Dio nelle Scritture trasmetteva, nell'ambito delle culture patriarcali di Israele e della chiesa paleocristiana, l'ovvio concetto che Dio, descritto in modi maschili, esercitava l'autorità sul proprio popolo. Padre, Re e Signore comunicavano, con il loro riferimento al genere maschile, una legittima autorità che si doveva rispettare e seguire. Malachia 1,6 per esempio, indica proprio questa connessione tra padre e autorità. Egli scrive: "“Un figlio onora il padre e un servo il padrone. Se sono un padre, dov'è l'onore che mi è dovuto? Se sono un padrone, dov'è il rispetto che mi è dovuto?”, dice il SIGNORE Onnipotente". Dio come Padre merita legittimamente l'onore, il rispetto e l'obbedienza dei propri figli. Non riuscire a vedere ciò vuol dire lasciarsi sfuggire uno dei motivi principali per cui Dio scelse la terminologia maschile per nominare se stesso.  
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In secondo luogo, se la chiesa primitiva accoglie chiaramente la piena uguaglianza essenziale delle tre persone trinitarie (perché ciascuna delle tre persone divine possiede appieno e simultaneamente la stessa identica natura divina infinita), la chiesa ha nondimeno sempre affermato parimenti la precedenza del Padre sul Figlio e lo Spirito. Siccome tale precedenza non può giustamente essere compresa in termini di essenza o natura (a meno di non ricadere nel subordinazionismo ariano), essa deve esistere in termini di relazione24. Come affermato da Agostino, la distinzione delle persone è costituita precisamente dalle diverse relazioni tra di loro, in parte manifeste dall'intrinseca autorità del Padre e intrinseca sottomissione del Figlio. Ciò è più evidente nell'eterna relazione Padre-Figlio, in cui il Padre è eternamente il Padre del Figlio e il Figlio eternamente Figlio del Padre. Tuttavia, qualcuno potrebbe chiedersi, questo comunica un'eterna autorità del Padre e un'eterna sottomissione del Figlio? Vediamo come Agostino discute sia l'essenziale uguaglianza di Padre e Figlio e la missione del Figlio che fu inviato, nell'eternità remota, per obbedire ed eseguire la volontà del Padre:  
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In secondo luogo, se la chiesa paleocristiana accoglie chiaramente la piena uguaglianza essenziale delle tre persone trinitarie (perché ciascuna delle tre persone divine possiede appieno e simultaneamente la stessa identica natura divina infinita), la chiesa ha nondimeno sempre affermato parimenti la precedenza del Padre sul Figlio e lo Spirito. Siccome tale precedenza non può giustamente essere compresa in termini di essenza o natura (a meno di non ricadere nel subordinazionismo ariano), essa deve esistere in termini di relazione<ref>Per una discussione della prova che la teologia della chiesa paleocristiana sostenesse la simultanea uguaglianza eterna dell'essenza e pure la relazione funzionale di autorità e obbedienza tra le persone della Deità una a trina, vedi inoltre Robert Letham, "Il dibattito uomo-donna: commento teologico", ''Rivista teologica Westminster'' 52 (1990) 65-78; Stephen D. Kovach e Peter R. Schemm jr, "Una difesa della dottrina dell'eterna subordinazione del Figlio", ''Rivista della Società teologica evangelica'' 42/3 (settembre 1999) 461-476. In uno spazio limitato, Kovach e Schemm citano esempi da Ilario di Poitiers, Attanasio, i padri cappadoci e Agostino, con commenti a sostegno di Giovanni Calvino, Philip Schaff, Jaroslav Pelikan, J. N. D. Kelly, Charles Hodge, W. G. T. Shedd, e riportano (p. 471) le conclusioni di Paul Rainbow, "Trinitarianesimo ortodosso e femminismo evangelico", 4 (saggio non pubblicato, basato sulla sua dissertazione "Monoteismo e Cristologia in 1Corinzi 8,4-6" [diss. D.Phil., Oxford University, 1987]), in cui Rainbow conclude: "Dalla prima forma del credo possiamo vedere che il Padre e il Figlio sono uniti nell'essere, ma occupano ranghi diversi nella funzione".</ref>. Come affermato da Agostino, la distinzione delle persone è costituita precisamente dalle diverse relazioni tra di loro, in parte manifeste dall'intrinseca autorità del Padre e intrinseca sottomissione del Figlio. Ciò è più evidente nell'eterna relazione Padre-Figlio, in cui il Padre è eternamente il Padre del Figlio e il Figlio eternamente Figlio del Padre. Tuttavia, qualcuno potrebbe chiedersi, questo comunica un'eterna autorità del Padre e un'eterna sottomissione del Figlio? Vediamo come Agostino discute sia l'essenziale uguaglianza di Padre e Figlio e la missione del Figlio che fu inviato, nell'eternità trascorsa, per obbedire ed eseguire la volontà del Padre:  
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:Se dunque il Figlio si dice mandato dal Padre perché questi è Padre e quello è Figlio, niente ci impedisce di credere che il ''Figlio sia uguale e consustanziale al Padre'' e che tuttavia il Figlio sia stato mandato dal Padre. Non perché l’uno sia superiore e l’altro inferiore, ma perché l’uno è Padre e l’altro è Figlio, l’uno genitore e l’altro generato, l’uno è colui da cui procede l'inviato, l’altro è colui che procede da chi lo invia. Infatti è il Figlio che ha origine dal Padre, non il Padre dal Figlio. Conseguentemente possiamo capire che la missione del ''Figlio non si identifica semplicemente con l’incarnazione del Verbo, ma è il principio che ha determinato l’incarnazione del Verbo'' e il compimento da parte di lui, personalmente presente, degli eventi che sono stati registrati. In altre parole, ''la missione non è solo dell’uomo assunto dal Verbo, ma altresì del Verbo che è stato mandato a farsi uomo. Perché la sua missione non presuppone una differenza di potere o di sostanza o di altro nei riguardi del Padre,'' ma presuppone l’origine del Figlio dal Padre, non del Padre dal Figlio25.
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:Se dunque il Figlio si dice mandato dal Padre perché questi è Padre e quello è Figlio, niente ci impedisce di credere che il ''Figlio sia uguale e consustanziale al Padre'' e che tuttavia il Figlio sia stato mandato dal Padre. Non perché l’uno sia superiore e l’altro inferiore, ma perché l’uno è Padre e l’altro è Figlio, l’uno genitore e l’altro generato, l’uno è colui da cui procede l'inviato, l’altro è colui che procede da chi lo invia. Infatti è il Figlio che ha origine dal Padre, non il Padre dal Figlio. Conseguentemente possiamo capire che la missione del ''Figlio non si identifica semplicemente con l’incarnazione del Verbo, ma è il principio che ha determinato l’incarnazione del Verbo'' e il compimento da parte di lui, personalmente presente, degli eventi che sono stati registrati. In altre parole, ''la missione non è solo dell’uomo assunto dal Verbo, ma altresì del Verbo che è stato mandato a farsi uomo. Perché la sua missione non presuppone una differenza di potere o di sostanza o di altro nei riguardi del Padre,'' ma presuppone l’origine del Figlio dal Padre, non del Padre dal Figlio<ref>Sant'Agostino, ''La Trinità'', trad. Edmund Hill, vol. 5, ''Opere'' (Brooklyn, NY, New City Press, 1991) IV 27 (corsivo aggiunto). (NdT: per le opere complete di Sant'Agostino in italiano vedi http://www.augustinus.it/italiano/index.htm)</ref>.
Si notino due osservazioni dalla dichiarazione di Agostino. Primo, Agostino non vede alcuna differenza tra l'affermazione, da un lato, della completa uguaglianza del Figlio al Padre e, dall'altro, l'eterna posizione del Figlio che procede dal Padre, la cui responsabilità è di eseguire la volontà del Padre come quegli inviato da tutta l'eternità dal Padre. Quanto affermato da Jewett sul fatto che la subordinazione funzionale implichi un'essenziale inferiorità viene qui negato da Agostino. Secondo, si noti che Agostino nega l'asserzione di Bilezikian che tutta la subordinazione del Figlio al Padre sia riposta completamente nell'incarnazione del Figlio. Al contrario, Agostino afferma che "la missione del Figlio non si identifica semplicemente con l’incarnazione del Verbo, ma è il principio che ha determinato l’incarnazione del Verbo". In altre parole, l'invio del Figlio ebbe luogo nell'eternità trascorsa affinché il Verbo eterno, inviato dall'alto dal Padre, potesse incarnarsi e quindi continuare il proprio ruolo di esecutore della volontà del Padre.  
Si notino due osservazioni dalla dichiarazione di Agostino. Primo, Agostino non vede alcuna differenza tra l'affermazione, da un lato, della completa uguaglianza del Figlio al Padre e, dall'altro, l'eterna posizione del Figlio che procede dal Padre, la cui responsabilità è di eseguire la volontà del Padre come quegli inviato da tutta l'eternità dal Padre. Quanto affermato da Jewett sul fatto che la subordinazione funzionale implichi un'essenziale inferiorità viene qui negato da Agostino. Secondo, si noti che Agostino nega l'asserzione di Bilezikian che tutta la subordinazione del Figlio al Padre sia riposta completamente nell'incarnazione del Figlio. Al contrario, Agostino afferma che "la missione del Figlio non si identifica semplicemente con l’incarnazione del Verbo, ma è il principio che ha determinato l’incarnazione del Verbo". In altre parole, l'invio del Figlio ebbe luogo nell'eternità trascorsa affinché il Verbo eterno, inviato dall'alto dal Padre, potesse incarnarsi e quindi continuare il proprio ruolo di esecutore della volontà del Padre.  
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Come scrive P. T. Forsyth, la bellezza dell'uguaglianza simultanea del Figlio con il Padre e dell'obbedienza a Lui illustra il servizio volenteroso che Dio si propone di ottenere dal proprio popolo. Forsyth asserisce che "la subordinazione ''non'' è inferiorità ed è simile a Dio. Il principio è incastonato nella coesione stessa della trinità eterna ed è inseparabile dall'unità, fraternità e vera uguaglianza degli uomini. Non è un segno di inferiorità l'essere subordinati, rispondere a un'autorità, obbedire. È anzi divino"26. Altrove Forsyth chiarisce che l'obbedienza del Figlio al Padre era davvero un'eterna obbedienza, offerta da un eternamente uguale, che costituisce un'eterna subordinazione del Figlio alla volontà del Padre. Egli scrive:  
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Come scrive P. T. Forsyth, la bellezza dell'uguaglianza simultanea del Figlio con il Padre e dell'obbedienza a Lui illustra il servizio volenteroso che Dio si propone di ottenere dal proprio popolo. Forsyth asserisce che "la subordinazione ''non'' è inferiorità ed è simile a Dio. Il principio è incastonato nella coesione stessa della trinità eterna ed è inseparabile dall'unità, fraternità e vera uguaglianza degli uomini. Non è un segno di inferiorità l'essere subordinati, rispondere a un'autorità, obbedire. È anzi divino"<ref>P. T. Forsyth, ''Dio Padre Santo'' (1897; ristampa Londra, Independent Press, 1957) 42.</ref>. Altrove Forsyth chiarisce che l'obbedienza del Figlio al Padre era davvero un'eterna obbedienza, offerta da un eternamente uguale, che costituisce un'eterna subordinazione del Figlio alla volontà del Padre. Egli scrive:  
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:Padre e Figlio coesistono, coeguali nello Spirito della santità, cioè della perfezione. Tuttavia, la relazione Padre-Figlio è inconcepibile se non nell'obbedienza del Figlio al Padre. La perfezione del Figlio e il perfezionamento della sua santa opera sta non nella sua sofferenza, bensì nella sua obbedienza e, poiché egli era il Figlio eterno, ciò significava un'eterna obbedienza. ... ma l'obbedienza non è concepibile senza una qualche forma di subordinazione. Tuttavia, proprio in questa stessa obbedienza il Figlio era coeguale al Padre; la volontà cedevole del Figlio era non meno divina di quella rigorosa del Padre. Perciò, nella natura stessa di Dio, la subordinazione non sottintende alcuna inferiorità27.
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:Padre e Figlio coesistono, coeguali nello Spirito della santità, ovvero della perfezione. Tuttavia, la relazione Padre-Figlio è inconcepibile se non nell'obbedienza del Figlio al Padre. La perfezione del Figlio e il perfezionamento della sua santa opera sta non nella sua sofferenza, bensì nella sua obbedienza e, poiché egli era il Figlio eterno, ciò significava un'eterna obbedienza ... ma l'obbedienza non è concepibile senza una qualche forma di subordinazione. Tuttavia, proprio in questa stessa obbedienza il Figlio era coeguale al Padre; la volontà cedevole del Figlio era non meno divina di quella rigorosa del Padre. Perciò, nella natura stessa di Dio, la subordinazione non sottintende alcuna inferiorità<ref>P. T. Forsyth, ''Il matrimonio: etica e religione'' (Londra, Hodder and Stoughton, 1912) 70-71.</ref>.
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Terzo, la negazione egalitaria di una qualsivoglia sottomissione eterna del Figlio al Padre rende impossibile rispondere alla domanda del perché fosse il "Figlio" e non il "Padre" o lo "Spirito" a essere inviato per incarnarsi. E ancora più essenziale è la questione del perché gli eterni nomi per "Padre" e "Figlio" siano esattamente ''questi'' nomi. John Thompson ha mostrato la tendenza in molte delle moderne discussioni trinitarie a separare la cristologia dalle formulazioni trinitarie. Egli scrive che "la cristologia e la Trinità si erano praticamente separate. Si dichiarava e insieme presumeva che una qualsiasi delle tre persone potesse incarnarsi. ... Vi era dunque soltanto una relazione accidentale tra l'economia della rivelazione e redenzione e l'essere eternamente uno e trino di Dio"28. Apparentemente anche l'egalitarianismo contemporaneo è passibile di questa critica. Dal momento che nulla in Dio prepara il Figlio a essere il Figlio del Padre e poiché ciascun aspetto della sottomissione terrena del Figlio è del tutto separata da qualsiasi ''relazione eterna'' che esista tra il Padre e il Figlio, non vi è semplicemente alcun motivo perché il ''Padre'' debba inviare il ''Figlio''. Dalle parole di Thompson pare che il punto di vista egalitario consenta a "una delle tre persone" di incarnarsi. Tuttavia, abbiamo la rivelazione scritturale che afferma chiaramente che il Figlio scese dal cielo per fare la volontà del Padre. Non si trattava di una missione improvvisata. Nell'eternità il Padre incaricò il Figlio, che quindi volontariamente abbandonò la gloria di cui godeva con il Padre per venire a comprare il nostro perdono e rinnovamento. Tale gloria risulta sminuita se non c'è un'eterna relazione Padre-Figlio in base a cui il Padre invia, il Figlio volontariamente arriva e lo Spirito volontariamente concede.  
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Terzo, la negazione egalitaria di una qualsivoglia sottomissione eterna del Figlio al Padre rende impossibile rispondere alla domanda del perché fosse il "Figlio" e non il "Padre" o lo "Spirito" a essere inviato per incarnarsi. E ancora più essenziale è la questione del perché gli eterni nomi per "Padre" e "Figlio" siano esattamente ''questi'' nomi. John Thompson ha mostrato la tendenza in molte delle moderne discussioni trinitarie a separare la cristologia dalle formulazioni trinitarie. Egli scrive che "la cristologia e la Trinità si erano praticamente separate. Si dichiarava e insieme presumeva che una qualsiasi delle tre persone potesse incarnarsi. ... Vi era dunque soltanto una relazione accidentale tra l'economia della rivelazione e redenzione e l'essere eternamente uno e trino di Dio"<ref>Thompson, ''Prospettive trinitariane moderne'', 22.</ref>. Apparentemente anche l'egalitarianismo contemporaneo è passibile di questa critica. Dal momento che nulla in Dio prepara il Figlio a essere il Figlio del Padre e poiché ciascun aspetto della sottomissione terrena del Figlio è del tutto separata da qualsiasi ''relazione eterna'' che esista tra il Padre e il Figlio, non vi è semplicemente alcun motivo perché il ''Padre'' debba inviare il ''Figlio''. Dalle parole di Thompson pare che il punto di vista egalitario consenta a "una delle tre persone" di incarnarsi. Tuttavia, abbiamo la rivelazione scritturale che afferma chiaramente che il Figlio scese dal cielo per fare la volontà del Padre. Non si trattava di una missione improvvisata. Nell'eternità il Padre incaricò il Figlio, che quindi volontariamente abbandonò la gloria di cui godeva con il Padre per venire a comprare il nostro perdono e rinnovamento. Tale gloria risulta sminuita se non c'è un'eterna relazione Padre-Figlio in base a cui il Padre invia, il Figlio volontariamente arriva e lo Spirito volontariamente concede.  
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E infine quale prova biblica esiste per l'eterna subordinazione funzionale del Figlio al Padre? Un tema ricorrente nella storia di questa dottrina (come si è visto prima in Agostino e Forsyth) è che il Figlio fu incaricato dal Padre nell'''eternità'' trascorsa di venire come il Figlio incarnato. Come Gesù dichiara in almeno oltre trenta occasioni nel vangelo di Giovanni, egli fu ''inviato sulla terra'' dal Padre per fare la volontà del Padre. Può questo essere ridotto al semplice invio del Figlio ''incarnato'' per compiere la missione che il Padre gli aveva riservata, ora che è già giunto nel mondo? Oppure dobbiamo pensare a questo invio, a questo incarico, come se fosse avvenuto nell''eternità trascorsa'', un incarico che quindi viene compiuto in tempo? Le Scritture, sembrerebbe chiaro, esigono quest'ultimo punto di vista.  
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E infine quale prova biblica esiste per l'eterna subordinazione funzionale del Figlio al Padre? Un tema ricorrente nella storia di questa dottrina (come si è visto prima in Agostino e Forsyth) è che il Figlio fu incaricato dal Padre nell'eternità trascorsa di venire come il Figlio incarnato. Come Gesù dichiara in almeno oltre trenta occasioni nel vangelo di Giovanni, egli fu ''inviato sulla terra'' dal Padre per fare la volontà del Padre. Può questo essere ridotto al semplice invio del Figlio ''incarnato'' per compiere la missione che il Padre gli aveva riservata, ora che è già giunto nel mondo? Oppure dobbiamo pensare a questo invio, a questo incarico, come se fosse avvenuto nell'eternità trascorsa, un incarico che quindi viene compiuto in tempo? Le Scritture, sembrerebbe chiaro, esigono quest'ultimo punto di vista.  
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Si consideri, per esempio, l'asserzione di Pietro nel suo sermone della Pentecoste riportato negli Atti 2. Riguardo a Cristo dice: "Quest'uomo vi fu dato nelle mani secondo il determinato consiglio e prescienza di Dio, e voi lo prendeste, e per mani di iniqui lo inchiodaste alla croce e lo uccideste " (Atti 2,23). La crocifissione di Cristo compì il "determinato consiglio" di Dio, che egli aveva stabilito molto tempo prima dell'effettiva incarnazione. Anche se questo versetto da solo non ci dice esattamente a quanto in là risalisse il piano di Dio, sappiamo da numerose profezie bibliche (per esempio, Salmo 22; Isaia 9,6-7; Isaia 53; Michea 5,2, per menzionare alcuni tra i più degni di nota) che Dio aveva pianificato e predetto con precisione, molto tempo prima dell'incarnazione, nascita, vita, morte e trionfo finale del Figlio. Se l'avvento di Cristo portò a compimento il "determinato consiglio" di Dio, e se tale consiglio fosse stato stabilito ben prima dell'incarnazione, è dunque chiaro che l'incarico al Figlio avvenne nella relazione di Cristo con il Padre nella trinità immanente e non dopo la sua venuta come Figlio incarnato. Si consideri un'altra affermazione di Pietro. Riguardo all'opera redentrice di Cristo, Pietro scrive: "Egli [Cristo] fu preconosciuto prima della fondazione del mondo, ma manifestato negli ultimi tempi per voi" (1Pietro 1,20). Se ci chiediamo a quanto tempo addietro risalga l'incarico al Figlio, questo versetto risolve la questione. Prima che il mondo fosse creato, il Padre scelse (letteralmente "presagì") l'avvento del Figlio come redentore. L'avvento del Figlio in tempo per versare il proprio sangue riflette non una decisione estemporanea, o un testa o croce della moneta trinitariana, bensì l'eterno fine del ''Padre'' di inviare e offrire il proprio ''Figlio''.  
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Si consideri, per esempio, l'asserzione di Pietro nel suo sermone della Pentecoste riportato negli Atti 2. Riguardo a Cristo dice: "Quest'uomo vi fu dato nelle mani secondo il determinato consiglio e prescienza di Dio, e voi lo prendeste, e per mani di iniqui lo inchiodaste alla croce e lo uccideste " (Atti 2,23). La crocifissione di Cristo compì il "determinato consiglio" di Dio, che egli aveva stabilito molto tempo prima dell'effettiva incarnazione. Anche se questo versetto da solo non ci dice esattamente a quanto in là risalisse il piano di Dio, sappiamo da numerose profezie bibliche (per esempio, Salmo 22; Isaia 9,6-7; Isaia 53; Michea 5,2, per menzionare alcuni tra i più degni di nota) che Dio aveva pianificato e predetto con precisione, molto tempo prima dell'incarnazione, la nascita, vita, morte e trionfo finale del Figlio. Se l'avvento di Cristo portò a compimento il "determinato consiglio" di Dio, e se tale consiglio fosse stato stabilito ben prima dell'incarnazione, è dunque chiaro che l'incarico al Figlio avvenne nella relazione di Cristo con il Padre nella trinità immanente e non dopo la sua venuta come Figlio incarnato. Si consideri un'altra affermazione di Pietro. Riguardo all'opera redentrice di Cristo, Pietro scrive: "Egli [Cristo] fu preconosciuto prima della fondazione del mondo, ma manifestato negli ultimi tempi per voi" (1Pietro 1,20). Se ci chiediamo a quanto tempo addietro risalga l'incarico al Figlio, questo versetto risolve la questione. Prima che il mondo fosse creato, il Padre scelse (letteralmente "presagì") l'avvento del Figlio come redentore. L'avvento del Figlio in tempo per versare il proprio sangue riflette non una decisione estemporanea, o un testa o croce della moneta trinitariana, bensì l'eterno fine del ''Padre'' di inviare e offrire il proprio ''Figlio''.  
Efesini 1,3-5 e Rivelazioni 13,8 confermano tale conclusione. In Efesini, Paolo loda Dio ''Padre'' per aver scelto il proprio popolo ''in Cristo'' prima della fondazione del mondo e averlo predestinato all'adozione in quanto figlio ''tramite Gesù Cristo''. Poiché Paolo specificamente 1) loda il Padre per tale elezione e predestinazione, 2) designa ''Cristo'' come colui verso il quale è diretta la nostra elezione e predestinazione e 3) afferma che il fine e piano elettivo del Padre avvenne prima della creazione del mondo, ne consegue che l'incarico del Padre al Figlio è fondato nell'eternità trascorsa e che la sottomissione del Figlio al Padre è radicata nella loro eterna relazione nell'ambito della Deità. Rivelazioni 13,8 indica parimenti che il libro della vita in cui i nomi dei credenti sono stati registrati esiste 1) dalla ''fondazione del mondo'' e 2) appartiene ''all'Agnello che fu ucciso''. Ancora una volta, dunque, abbiamo una prova evidente che il fine del Padre dall'eternità trascorsa era di inviare il proprio Figlio, l'Agnello di Dio, tramite il quale il suo popolo sarebbe stato salvato. La relazione autorità-obbedienza di Padre e Figlio nella trinità immanente è imprescindibile, se vogliamo spiegarci l'eterno fine di Dio Padre nell'eleggere e salvare i suoi attraverso il proprio figlio diletto.  
Efesini 1,3-5 e Rivelazioni 13,8 confermano tale conclusione. In Efesini, Paolo loda Dio ''Padre'' per aver scelto il proprio popolo ''in Cristo'' prima della fondazione del mondo e averlo predestinato all'adozione in quanto figlio ''tramite Gesù Cristo''. Poiché Paolo specificamente 1) loda il Padre per tale elezione e predestinazione, 2) designa ''Cristo'' come colui verso il quale è diretta la nostra elezione e predestinazione e 3) afferma che il fine e piano elettivo del Padre avvenne prima della creazione del mondo, ne consegue che l'incarico del Padre al Figlio è fondato nell'eternità trascorsa e che la sottomissione del Figlio al Padre è radicata nella loro eterna relazione nell'ambito della Deità. Rivelazioni 13,8 indica parimenti che il libro della vita in cui i nomi dei credenti sono stati registrati esiste 1) dalla ''fondazione del mondo'' e 2) appartiene ''all'Agnello che fu ucciso''. Ancora una volta, dunque, abbiamo una prova evidente che il fine del Padre dall'eternità trascorsa era di inviare il proprio Figlio, l'Agnello di Dio, tramite il quale il suo popolo sarebbe stato salvato. La relazione autorità-obbedienza di Padre e Figlio nella trinità immanente è imprescindibile, se vogliamo spiegarci l'eterno fine di Dio Padre nell'eleggere e salvare i suoi attraverso il proprio figlio diletto.  
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1. ''Accettare le legittime strutture dell'autorità''. Poiché la struttura dell'autorità e obbedienza non è stabilita soltanto da Dio, ma è, persino di più, propria alla stessa vita intra-trinitaria di Dio, come il Padre stabilisce la propria volontà e il Figlio obbedisce con gioia, non dobbiamo perciò disdegnare, bensì accogliere le giuste linee di autorità e obbedienza. A casa, nella comunità dei credenti e nella società le legittime linee di autorità sono buoni, saggi e splendidi riflessi della realtà che è Dio stesso. Ciò vale per quelli nelle posizioni ordinate da Dio di sottomissione e obbedienza che devono dunque accettare con gioia questi giusti ruoli di sottoposti. Vale allo stesso modo per quelli ordinati da Dio in posizioni di autorità che devono accogliere i giusti ruoli di autorità responsabile ed esercitarla per il Signore.  
1. ''Accettare le legittime strutture dell'autorità''. Poiché la struttura dell'autorità e obbedienza non è stabilita soltanto da Dio, ma è, persino di più, propria alla stessa vita intra-trinitaria di Dio, come il Padre stabilisce la propria volontà e il Figlio obbedisce con gioia, non dobbiamo perciò disdegnare, bensì accogliere le giuste linee di autorità e obbedienza. A casa, nella comunità dei credenti e nella società le legittime linee di autorità sono buoni, saggi e splendidi riflessi della realtà che è Dio stesso. Ciò vale per quelli nelle posizioni ordinate da Dio di sottomissione e obbedienza che devono dunque accettare con gioia questi giusti ruoli di sottoposti. Vale allo stesso modo per quelli ordinati da Dio in posizioni di autorità che devono accogliere i giusti ruoli di autorità responsabile ed esercitarla per il Signore.  
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2. ''Vedere autorità e sottomissione come entrambe simili a Dio''. Con P. T. Forsyth dobbiamo vedere non soltanto l'autorità, ma pure la sottomissione come simile a Dio. Siamo più pronti ad associare Dio con l'autorità, ma dal momento che il Figlio è il ''Figlio eterno'' del Padre, e poiché il Figlio è ''eternamente'' Dio, ne consegue allora che la natura trinitaria intrinseca di Dio onora sia l'autorità, sia la sottomissione. Proprio com'è simile a Dio comportarsi con responsabilità e decoro, così è similmente divino essere sottomessi nelle relazioni umane quando ciò è richiesto. È divino per le mogli sottomettersi ai propri mariti; è divino per i figli obbedire ai propri genitori; è divino per i membri della chiesa seguire le regole dei propri pii presbiteri. Si esamini Filippesi 2,5-11 per vedere come si esprime il modello della sottomissione divina. Noi onoriamo Dio nel riprodurre la relazione autorità-sottomissione che caratterizza le stesse persone della Trinità.  
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2. ''Vedere autorità e sottomissione come entrambe simili a Dio''. Con P. T. Forsyth dobbiamo vedere non soltanto l'autorità, ma pure la sottomissione come simile a Dio. Siamo più pronti ad associare Dio con l'autorità, ma dal momento che il Figlio è il ''Figlio eterno'' del Padre, e poiché il Figlio è ''eternamente'' Dio, ne consegue allora che la natura intra-trinitaria di Dio onora sia l'autorità, sia la sottomissione. Proprio com'è simile a Dio comportarsi con responsabilità e decoro, così è similmente divino essere sottomessi nelle relazioni umane quando ciò è richiesto. È divino per le mogli sottomettersi ai propri mariti; è divino per i figli obbedire ai propri genitori; è divino per i membri della chiesa seguire le regole dei propri pii presbiteri. Si esamini Filippesi 2,5-11 per vedere come si esprime il modello della sottomissione divina. Noi onoriamo Dio nel riprodurre la relazione autorità-sottomissione che caratterizza le stesse persone della Trinità.  
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3. ''Infondere nuova vita al retto concetto biblico di Dio come Padre.'' Così come Gesù ci istruì nella sua preghiera modello (il Padre Nostro) dobbiamo pregare il "Padre nostro che sei nei cieli". Il concetto e la realtà di Dio in quanto Padre risplendono fulgidi e non dobbiamo perdere questo articolo della fede e pratica ecclesiastiche a causa di padri violenti o confusione culturale su che cosa sia la paternità. "Dio in quanto Padre" si rifà a due idee che si bilanciano e si completano a vicenda: riverenza (per es., sia benedetto il tuo nome) e ''dipendenza'' (per es., dacci oggi il nostro pane quotidiano). Dio in quanto Padre merita il nostro massimo rispetto e devozione assoluta, merita la nostra incondizionata fiducia nell'affidarci a lui. Essere devoti e affidarsi a Dio in quanto Padre coglie nell'essenza tutto quello che la nostra vita dovrà essere dinanzi a lui.  
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3. ''Infondere nuova vita al retto concetto biblico di Dio come Padre.'' Così come Gesù ci istruì nella sua preghiera modello (il Padre Nostro) dobbiamo pregare il "Padre nostro che sei nei cieli". Il concetto e la realtà di Dio in quanto Padre risplendono fulgidi e non dobbiamo perdere questo articolo della fede e pratica ecclesiastiche a causa di padri violenti o confusione culturale su che cosa sia la paternità. "Dio in quanto Padre" si rifà a due idee che si bilanciano e si completano a vicenda: ''riverenza'' (per es., sia benedetto il tuo nome) e ''dipendenza'' (per es., dacci oggi il nostro pane quotidiano). Dio in quanto Padre merita il nostro massimo rispetto e devozione assoluta, merita la nostra incondizionata fiducia nell'affidarci a lui. Essere devoti e affidarsi a Dio in quanto Padre coglie nell'essenza tutto quello che la nostra vita dovrà essere dinanzi a lui.  
4. ''La nostra comune adozione nella famiglia di Dio è in quanto figli.'' Tutti noi, come figli di Dio, dobbiamo accettare la legittima autorità divina sulla nostra vita. Siamo tutti figli di Dio (υἱοὶ θεου) attraverso la fede in Gesù Cristo (Galati 3,26) e come figli dobbiamo vedere il nostro ruolo, come con il ruolo dell'eterno Figlio, sempre e solo per sottometterci alla volontà del Padre nostro. Paradossalmente, quando offriamo obbedienza completa, entriamo completamente nella vita come Dio la creò per essere. Come disse Gesù: "Se osservate i miei comandamenti, dimorerete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e dimoro nel Suo amore.
Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia piena" (Giovanni 15,10-11). Dobbiamo obbedire senza riserve, completamente e con grande anticipazione di benedizioni perché, nell'obbedire, entriamo in una gioia completa e durevole.  
4. ''La nostra comune adozione nella famiglia di Dio è in quanto figli.'' Tutti noi, come figli di Dio, dobbiamo accettare la legittima autorità divina sulla nostra vita. Siamo tutti figli di Dio (υἱοὶ θεου) attraverso la fede in Gesù Cristo (Galati 3,26) e come figli dobbiamo vedere il nostro ruolo, come con il ruolo dell'eterno Figlio, sempre e solo per sottometterci alla volontà del Padre nostro. Paradossalmente, quando offriamo obbedienza completa, entriamo completamente nella vita come Dio la creò per essere. Come disse Gesù: "Se osservate i miei comandamenti, dimorerete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e dimoro nel Suo amore.
Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia piena" (Giovanni 15,10-11). Dobbiamo obbedire senza riserve, completamente e con grande anticipazione di benedizioni perché, nell'obbedire, entriamo in una gioia completa e durevole.  
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5. ''La nostra adorazione è per Dio uno e trino, uguale in essenza, ma diverso nel ruolo''. La bellezza e armonia del creato di Dio della diversità nell'unità (come si vede per esempio nel matrimonio e nel corpo di Cristo) è eternamente e immutabilmente radicata in Dio stesso. Adoriamo Dio solo quando lo sosteniamo ''per quello che egli è''. Se disdegniamo l'unità e "celebriamo la diversità" che è frammentata e disgiunta, o disdegniamo la diversità insistendo in un'uniformità che nega le differenze create e ordinate da Dio, non terremo in dovuto conto Dio per ''chi'' egli è e dunque non lo onoreremo ''per'' quello che è. In Dio, la diversità delle persone serve l'unità del fine, metodo e obiettivo. La volontà del Padre è eseguita con gioia dal Figlio. Quando giunge lo Spirito, fare la volontà del Figlio è per esso una gioia. Sono uniti nel fine, diversi nei ruoli, e in entrambi (fine e ruoli) vi è una lieta accettazione. Insieme, le tre persone definiscono quello a cui la nostra "diversità nell'unità" della relazione deve assomigliare e come la nostra vita insieme dovrà essere vissuta.  
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5. ''La nostra adorazione è per Dio uno e trino, uguale in essenza, ma diverso nel ruolo''. La bellezza e armonia del creato di Dio della diversità nell'unità (come si vede per es. nel matrimonio e nel corpo di Cristo) è eternamente e immutabilmente radicata in Dio stesso. Adoriamo Dio solo quando lo sosteniamo ''per quello che egli è''. Se disdegniamo l'unità e "celebriamo la diversità" che è frammentata e disgiunta, o disdegniamo la diversità insistendo in un'uniformità che nega le differenze create e ordinate da Dio, non terremo in dovuto conto Dio per ''chi'' egli è e dunque non lo onoreremo ''per'' quello che è. In Dio, la diversità delle persone serve l'unità del fine, metodo e obiettivo. La volontà del Padre è eseguita con gioia dal Figlio. Quando giunge lo Spirito, fare la volontà del Figlio è per esso una gioia. Sono uniti nel fine, diversi nei ruoli, e in entrambi (fine e ruoli) vi è una lieta accettazione. Insieme, le tre persone definiscono quello a cui la nostra "diversità nell'unità" della relazione deve assomigliare e come la nostra vita insieme dovrà essere vissuta.  
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Versione corrente delle 08:10, 30 mag 2014

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Di Bruce A. Ware su Trinità
Una parte della serie JBMW

Traduzione di Porzia Persio

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Alterare la Trinità: è il Figlio sottomesso al Padre?[1]

Introduzione

Coloro non hanno familiarità con gli scritti teologici contemporanei possono stupirsi del fatto che la dottrina storica della Trinità sia sottoposta a disamine, rivalutazioni, riformulazioni e/o difese significative[2]. A molti, tale dottrina, forse altrettanto o più di qualsiasi altra, appare così astratta e sconnessa dalla vita che potrebbero chiedersi perché riscuota tanto interesse. Che cosa c'è qui da giustificare e risvegliare un'attenzione così focalizzata? Qual è il nocciolo della questione in questa dottrina tale da provocare tanto interesse e coinvolgimento?


Per molti il problema è semplicemente questo: l'integrità e la realtà della fede cristiana in sé. Nel 1985 Donald Bloesch sorprese non pochi in ambito teologico con la pubblicazione del libro intitolato La battaglia per la Trinità[3], in cui accusava il rifiuto femminista dell'uso di termini prevalentemente maschili per definire Dio propri della Bibbia e teologia tradizionale, di rappresentare il rifiuto della Trinità stessa e, come tale, di voler imporre una fede diversa (cioè, non quella cristiana) a quei settori della chiesa inclini ad accettare la critica femminista. Tali accuse e ansie non accennano a estinguersi. Prendiamo per esempio le pacate parole del professor Geoffrey Wainwright, docente di Teologia Sistematica presso la Duke University:

I segni dei nostri tempi mostrano che, come nel quarto secolo, la dottrina della Trinità occupa una posizione centrale. Pur ritenendosi come sempre al'interno della chiesa, e in molti casi desiderosi di essere leali alla propria percezione della verità, diversi pensatori e attivisti cercano di riconsiderare la dottrina della Trinità trasmessa loro, tanto che il loro successo potrebbe di fatto significarne l'abbandono o, almeno, un'alterazione tale del suo contenuto, stato e funzione da cambiare drasticamente l'intero volto del cristianesimo. Ancora una volta, la comprensione e forse il raggiungimento della salvezza sono a rischio, o sicuramente lo sono il messaggio e la struttura visibile della chiesa.[4]

Quali sono le proposte revisioni contemporanee della dottrina della Trinità che potrebbero provocare reazioni tanto forti? Questo articolo si propone di concentrarsi sulle due dimensioni della ricostruzione trinitaria, entrambe derivate dal revisionismo femminista. Innanzitutto, il rifiuto della chiesa corrente del linguaggio trinitario maschile (o, più in generale, di un qualsiasi linguaggio maschile relativo a Dio) è in corso da quasi trent'anni. Se demascolinizzare il nome di Dio ci lasci con il Dio nominato nella Bibbia è ciò che tratteremo qui, con argomentazioni a sostegno del linguaggio maschile tradizionale e biblico per il Dio uno e trino. In secondo luogo, numerosi egalitari evangelici contemporanei spingono la chiesa a mantenere il linguaggio maschile per definire Dio, negando al contempo il fatto che tale linguaggio indichi un qualsiasi tipo di distinzione intra-trinitaria dell'autorità. Soppeseremo questi argomenti e offriremo sostegno al costante impegno della chiesa verso la piena uguaglianza, nelle ipostasi della Trinità, della sostanza e differenziazione delle persone, l'ultima delle quali comprende e comporta l'eterna subordinazione funzionale del Figlio al Padre e dello Spirito ad ambi Padre e Figlio.

Il rifiuto femminista corrente del linguaggio maschile per il Dio uno e trino

I principali argomenti femministi per il rifiuto del linguaggio maschile trinitario

Mary Daly, per propria ammissione rappresentante radicale del movimento femminista, ha nondimeno colto nel segno della critica femminista all'aderenza storica e biblica della chiesa al linguaggio maschile di Dio nella sua affermazione: "Se Dio è maschio, il maschio è dio"[5]. Nonostante nessun teologo che si rispetti abbia mai affermato che Dio è maschio, la forza dell'obiezione di Mary Daly sta semplicemente nel fatto che riferirsi a Dio con linguaggio maschile dà l'idea che la mascolinità sia maggiormente a somiglianza di Dio. Tale idea, quindi, nel modo in cui è asserita tiene le donne in posizione subordinata e concede loro un minor diritto alla dignità. L'unico modo per correggerla può essere quello di rimuovere la predominanza del linguaggio maschile di Dio dalle nostre Scritture, liturgia e predicazione. Mentre alcuni (come la stessa Daly) si sono spostati verso l'uso esclusivo di un linguaggio femminile terreno e persino neo-pagano per definire la divinità, la maggioranza è in linea con le chiese correnti che condividono la questione fondamentale dell'equilibrio tra riferimenti maschili e femminili (per es., Dio come Padre e Madre) o di un linguaggio del tutto neutro in riferimento a Dio (per es., Creatore, Redentore, Sostenitore per sostituire Padre, Figlio, Spirito Santo)[6].

Qui possiamo dedicare soltanto una fugace attenzione alle svariate linee di un argomento in favore di un linguaggio comprensivo riferito a Dio[7], ma ci concentreremo in special modo sulla questione della tradizionale formulazione maschile della Trinità. In primo luogo, ci rifacciamo alla natura metaforica del linguaggio maschile di Dio proprio della Bibbia. Tutti concordano che, quando le Scritture chiamano Dio "Padre" oppure "Re", non dobbiamo intendere quelle parole letteralmente come Dio in quanto maschio. Esse servono metaforicamente a indicare funzioni paterne e reali quali provvidenza, protezione e sovranità. Dunque, se Dio è letteralmente colui che provvede, protegge e regna, egli è metaforicamente padre e re. Stando così le cose, obiettano le femministe, dovremmo perciò descrivere Dio con metafore femminili che esprimano alcune tra le funzioni di Dio più specificamente femminili, quali conforto, cura ed empatia. Quindi, se Dio non è (letteralmente) né padre, né madre, le metafore "padre" e "madre" sono ugualmente adatte a descrivere qualità e funzioni di Dio letteralmente vere. Dobbiamo dunque bilanciare i nomi femminili di Dio con quelli tradizionalmente maschili per darne un'immagine più completa, altrimenti dovremmo evitare completamente termini specifici, se il rischio che la gente possa pensare a Dio come a un essere sessuato fosse troppo grande. Applicato al linguaggio per definire la Trinità, i sostenitori del femminismo hanno suggerito di rivedere il linguaggio in entrambe le direzioni. Dobbiamo parlare della prima persona della Trinità come Padre/Madre e della seconda come del Figlio di Dio[8], oppure spostarci su un linguaggio trinitario rigorosamente neutro, come Creatore, Redentore e Sostenitore. Entrambi gli approcci trovano supporto nel femminismo corrente e quel che entrambi hanno in comune è l'elusione del linguaggio maschile dominante per il Dio uno e trino, in quanto sia falso che fuorviante.

In secondo luogo, quando ci si chiede perché il linguaggio biblico e quello tradizionalmente ecclesiastico per definire Dio sia prevalentemente maschile, ci si rende subito conto della natura intrinsecamente condizionata culturalmente del discorso biblico ed ecclesiastico su Dio. La cultura patriarcale in epoca biblica e nel corso della storia della chiesa ha portato a un linguaggio prevalentemente maschile per riferirsi a Dio. Per il femminismo, una volta realizzata tale realtà, la cosa ovvia e necessaria è quella di ridefinire come parliamo di Dio. Possiamo mantenere il linguaggio prevalentemente maschile per riferirci a Dio soltanto a costo di conservare l'illegittimo patriarcato da cui era sorto. Anche se la maggior parte delle femministe non concordassero del tutto con Mary Daly, ne correggerebbero l'affermazione per dire che, se Dio è visto e considerato al maschile, allora quel che è maschile sarebbe visto, naturalmente e inevitabilmente, come più valido e autorevole. Di nuovo, dunque, è necessaria una delle due linee di risposta: dobbiamo bilanciare l'uso maschile tradizionale con un linguaggio femminile appropriato e significativo per riferirci a Dio, oppure dobbiamo abbandonare ogni riferimento specifico.

In terzo luogo, come segue dai due punti precedenti, l'evoluzione politica e ideologica femminista richiede il nostro rifiuto della dominanza biblica e tradizionale del maschile riguardo a Dio. La vera liberazione delle donne, in generale, e la causa del diritto delle donne di servire in tutti i livelli della leadership ecclesiastica e denominazionale, in particolare, non potrà mai avvenire se Dio, la nostra maggiore autorità e l'unico legittimo oggetto di adorazione, è considerato in termini maschili. Perpetuare il concetto di mascolinità di Dio perpetua la natura servile del femminile. Dal momento che Dio è al di sopra dei generi, e poiché egli li ha creati entrambi a propria immagine, non dobbiamo ardire di continuare a concentrare il nostro parlare di Dio in un genere, bollando in tal modo l'altro come inferiore e subordinato.

La risposta al caso femminista contro il linguaggio maschile della Trinità

Curiosamente, molti rappresentanti delle chiese principali, così come la maggioranza delle femministe evangeliche (cioè egalitarie) al loro interno e senza denominazioni correnti, non concordano con il programma revisionista femminista. Per i più in questo gruppo, pur affermando di identificarsi appieno con i valori e le aspirazioni del femminismo cristiano, tali oppositori dichiarano coraggiosamente che cambiare il linguaggio della Bibbia e tradizione ecclesiastica in cui Dio è rivelato come Padre, Figlio e Spirito Santo, significa mettere in pericolo l'integrità del cristianesimo stesso e promuovere quelle che sono, a tutti gli effetti, un'altra deità e un'altra fede[9]. Le loro argomentazioni sono complesse e tortuose, ma illustreremo alcune delle questioni più importanti.

Per prima cosa, se è pur vero che la Bibbia usa un linguaggio metaforico maschile per nominare Dio (anche se Dio non è mai letteralmente maschile), è vero anche che la Bibbia non utilizza mai un linguaggio metaforico femminile per nominare Dio. È vero che di Dio si dice talvolta che sia o agisca in modo similmente materno (o un'altra accezione femminile)[10], ma Dio non viene mai chiamato "Madre" tanto spesso quanto "Padre". Il rispetto per il modo in cui Dio si auto-ritrae nelle Scritture richiede che rispettiamo tale distinzione. Anche se abbiamo ogni diritto (e responsabilità) di usare immagini femminili di Dio, come spesso viene fatto nelle Scritture stesse, non ci è consentito, per un precedente biblico, di andare oltre e nominare Dio in modi in cui egli stesso non si è nominato. Egli ha nominato se stesso "Padre", ma non "Madre". Questo fatto incontestabile delle rivelazioni scritturali deve in se stesso controllare il nostro discorso su Dio.

In secondo luogo, si potrebbe essere tentati di respingere il precedente punto "fattuale" ricorrendo alla cultura intrinsecamente patriarcale in cui il linguaggio biblico di Dio venne formulato. Tuttavia, il ricorso alla cultura mostra solo quanto insolito e persino unico sia per Israele l'aver scelto di usare esclusivamente il linguaggio maschile e non quello femminile per nominare Dio. Il fatto è che la strada più ovvia da prendere per Israele sarebbe stata seguire l'esempio delle nazioni che lo circondavano, che parlavano con regolarità e frequenza delle proprie deità in quanto femminili[11]. Che Israele decidesse di non farlo dimostra la sua resistenza a seguire forti pressioni culturali e che concepì il vero Dio, il Dio di Israele, come distinto da quelle false deità.

Nel difendere la propria asserzione che "il linguaggio biblico per Dio è maschile, una rivelazione unica di Dio nel mondo", Elizabeth Achtemeier prosegue:

La ragione primaria per quella designazione di Dio è che il Dio biblico non si lascia identificare con la sua creazione e dunque gli essere umani devono adorare non la creazione, bensì il Creatore... In ogni caso, è esattamente l'introduzione del linguaggio femminile per Dio che apre la porta a tale identificazione di Dio con il mondo[12].

Che si segua completamente o meno Achtemeier su questo punto[13], risulta evidente che le Scritture non nominano mai Dio come "Madre" o con altre attribuzioni femminili e ciò va chiaramente contro la pratica prevalente delle culture circostanti Israele e la chiesa paleocristiana.

Terzo punto, mentre le Scritture di sicuro non riflettono il variegato ambiente storico e culturale in cui furono scritte, il Dio biblico è presentato, essenzialmente, per auto-rivelazione o auto-manifestazione. Il linguaggio biblico di Dio, dunque, deve essere ricevuto con rispetto e gratitudine come il messaggero divinamente consacrato della verità che Dio stesso intendeva far sapere di sé al proprio popolo. Alterare il linguaggio biblico di Dio è negare e respingere l'auto-manifestazione di Dio nei termini in cui egli scelse e che usò nel rivelarsi a noi. Chiaramente, all'apice dell'auto-manifestazione divina sta la rivelazione di Gesù Cristo che si incarnò, in cui potemmo conoscere in forma visibile e fisica l'aspetto di Dio (Giovanni 1,14-18).

E qui, con scioccante regolarità, Gesù fa riferimento a Dio in una maniera scandalosa per i suoi ascoltatori ebrei, come a nient'altro se non "Padre". Che Gesù sia il Figlio inviato dal Padre è così profondamente e ampiamente il riflesso dell'auto-rivelazione divina nell'incarnazione e tramite essa, che alterare questo linguaggio sta a suggerire, sebbene solo implicitamente, che si parla invece di tutt'altra deità. L'auto-rivelazione, dunque, richiede il gioioso mantenimento di Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo.

Quarto punto, menzioniamo un ultimo avvertimento. Per il revisionismo femminista può essere scontato che il linguaggio biblico parli del Dio uno e trino in quanto Padre, Figlio e Spirito Santo, ma, continuano i revisionisti, quelle stesse scritture utilizzano inoltre il linguaggio di Dio in quanto creatore, redentore e sostenitore. Non possiamo usare quest'altro linguaggio biblico di Dio in chiesa e, con questo, onorare l'auto-rivelazione divina, evitando nel contempo l'equazione illegittima di Dio con la mascolinità che si rischia con il tradizionale linguaggio maschile?

Anche se i termini "Creatore, Redentore e Sostenitore" sono termini biblici per Dio, non possono funzionare come sostituti per le persone della Deità nominata "Padre, Figlio e Spirito Santo". Ci sono almeno tre motivi per cui questa sostituzione è inaccettabile. Primo, si rischia una comprensione modalista di Dio in cui egli è per prima cosa creatore, per poi passare alla successiva fase storica di redentore e parimenti di sostenitore. Le fasi e gli aspetti dell'attività si possono facilmente vedere come modi storici della manifestazione dell'unico Dio, come sostenuto da Sabellio e gli altri modalisti. Secondo, questa sostituzione suggerisce che il mondo è eterno, non temporalmente finito, e che l'opera redentrice di Dio è necessaria, non libera. L'affermazione ecclesiastica di Dio come "Padre, Figlio e Spirito" è un'asserzione, non puramente della sua manifestazione secolare come Padre del Figlio incarnato nel potere dello Spirito (anche se questo è in parte vero), ma pure della trinità immanente che è eternamente Padre, Figlio e Spirito. Il Padre, dunque, è il Padre eterno del Figlio; il Figlio è il Figlio eterno del Padre. Ora, se sostituiamo "Creatore, Redentore e Sostenitore" come nomi per queste realtà eterne, ciò richiede che vediamo Dio come Creatore eterno, il che suggerisce una creazione eterna, e Redentore eterno, il che suggerisce una redenzione necessaria. È chiaro che se "Padre, Figlio e Spirito" funzionano bene come nomi delle Persone trinitarie immanenti e secolari, "Creatore, Redentore e Sostenitore" sono designazioni puramente secolari e funzionali. In quanto tali, non possono semplicemente sostituire il linguaggio delle Scritture e tradizione ecclesiastica del Dio eterno che è in Se Stesso (cioè in modo immanente ed eterno) e in relazione al Padre, Figlio e Spirito della creazione (cioè in modo secolare). Terzo, i nomi personali di Padre, Figlio e Spirito Santo semplicemente non si riducono ai presunti sostituti funzionali di Creatore, Redentore e Sostenitore[14]. È il Padre, e il Padre solo, Creatore? È il Figlio Redentore? È lo Spirito Santo Sostenitore? L'insegnamento biblico ci istruisce che ciascuna di queste attività è compiuta da tutte e tre le persone divine che operano insieme. Sì, il Padre crea, ma lo fa tramite il potere della propria Parola (Giovanni 1,3) e agisce come realizzatore del proprio disegno creativo (Colossesi 1,16). Lo Spirito, parimenti, dà energia alla formazione dell'opera creativa del Padre attraverso il Figlio (Genesi 1,2). Allo stesso modo, la redenzione viene vanificata se l'opera di redenzione è ridotta a quella di seconda persona della Trinità. Biblicamente, la redenzione avviene solo se il Padre invia il Figlio nel mondo perché riceva l'ira del Padre contro di lui per i nostri peccati (2Corinzi 5,21). E naturalmente il Figlio compie tale opera soltanto per il potere dello Spirito che incombe su di lui e lo rende capace di andare sulla croce (Ebrei 9,14) e di resuscitare dai morti (Romani 8,11). E parimenti con Sostegno e Santificazione, è opera del Padre (1Tessalonicesi 5,23-24), del Figlio (Efesini 5,25-27) e dello Spirito Santo (2Corinzi 3,18) quello di proteggere i credenti e spingerli a essere santi nella vita e nel carattere destinati loro da tutta l'eternità (Efesini 1,4). Ci rendiamo conto che la sostituzione di "Padre, Figlio e Spirito Santo" con "Creatore, Redentore e Sostenitore" non solo fallisce come equivalente funzionale della tradizionale formula biblica trinitariana, ma, quel che è peggio, se seguita, sfocerebbe in tali gravi distorsioni teologiche che la fede che ne risulterebbe non avrebbe che una vaga somiglianza con quella della vera religione biblica e cristiana. Come asserisce Wainwright: "Esaminare la creazione, redenzione e santificazione mostra che un'affermazione di queste che sia fedele alla narrativa biblica contiene e si basa sulla comunione e cooperazione trinitaria di Padre, Figlio e Spirito Santo"[15].

Il rifiuto del femminismo evangelico del subordinazionismo funzionale eterno nell'ambito di Dio uno e trino

Come il femminismo evangelico accoglie il linguaggio maschile trinitario e respinge la subordinazione funzionale intra-trinitaria

Le femministe evangeliche, note anche come egalitarie, generalmente preferiscono conservare il tradizionale linguaggio maschile trinitario. Per i motivi elencati in precedenza, in particolare perché le Scritture sono per loro la parola ispirata e l'auto-rivelazione di Dio, la vasta maggioranza delle egalitarie ha cercato di difendere il linguaggio maschile di Dio contro le critiche di molte delle loro colleghe femministe. Nel processo, tuttavia, esse negano che tale linguaggio maschile implichi in qualche modo 1) la superiorità di quel che è maschile sul femminile o 2) che le relazioni eterne di Padre, Figlio e Spirito Santo indichino un qualsiasi tipo di gerarchia funzionale eterna nella Trinità.

Diciamo pure chiaramente che gli evangelici[16] non-egalitari e complementariani concordano pienamente con la prima di queste negazioni. Poiché Dio creò l'uomo e la donna a propria immagine e somiglianza (Genesi 1,26-27), è evidente che l'uso del linguaggio maschile non vuole segnalare un presunto maggior valore, dignità o importanza. Inoltre, che uomini e donne siano ugualmente redenti dal Salvatore, e che il marito credente debba garantire alla propria moglie credente onore in quanto "coeredi della grazia della vita" (1Pietro 3,7) dimostra anche la totale uguaglianza dell'individualità e del valore conferiti a uomini e donne, mediante sia la creazione che la redenzione, dal nostro Dio misericordioso. Gli evangelici egalitari e complementariani quindi concordano sul fatto che il linguaggio biblico maschile di Dio non indichi in nessun modo l'essenziale superiorità o il maggior valore del maschile sul femminile. Entrambi gli uomini e le donne sono, nella creazione e nella redenzione, stimati, ricercati e amati da Dio in egual misura; le donne sono uguali agli uomini dinnanzi a Dio in status, dignità, valore e individualità umana.

Riguardo la seconda negazione, tuttavia, vi è un motivo significativo per sfidare la posizione egalitaria. Se, dibattono gli egalitari, il linguaggio maschile di Dio nelle Scritture non è una concessione alla cultura patriarcale, ma rappresenta piuttosto gli strumenti che Dio stesso ha scelti per auto-manifestarsi, che cosa viene comunicato da questa terminologia maschile? Il linguaggio maschile non collega intenzionalmente la posizione e autorità divine come Dio al concetto di mascolinità sulla femminilità? Inoltre, che cosa significa che il Padre è l'eterno Padre del Figlio e che il Figlio è l'eterno Figlio del Padre? La relazione Padre-Figlio nell'ambito della Trinità immanente è forse indicativa di una qualche eterna relazione di autorità nell'ambito della stessa Trinità?

Gli egalitari respingono queste implicazioni[17]. Essi vedono chiaramente che, se una relazione eterna di autorità e obbedienza è fondata sulle relazioni eterne immanenti intra-trinitarie di Padre, Figlio e Spirito Santo, allora questo offre almeno una giustificazione prima facie della nozione delle relazioni umane creazionali di cui autorità e sottomissione fanno parte[18]. Eppure entrambe le caratteristiche della visione ortodossa summenzionata potrebbero voler suggerire una tale corrispondenza. Ovvero, sia il prevalente linguaggio maschile per Dio, sia l'eterna natura della relazione Padre-Figlio nell'ambito della Deità potrebbero condurci a pensare che l'autorità e l'obbedienza siano radicate nella Trinità, e che quella autorità corrisponda, in qualche modo speciale, alla mascolinità.

Per controbattere queste linee di pensiero, gli egalitari sostengono fondamentalmente tre idee. Con la prima asseriscono che i prevalenti riferimenti maschili a Dio non trasmettono in alcun modo una qualche autorità corrispondente attribuita a quel che è maschile. Come abbiamo già visto in precedenza, il fatto che uomini e donne siano stati creati a immagine e somiglianza di Dio dimostra che non c'è subordinazione del femminile al maschile; (soltanto) l'uguaglianza caratterizza la loro relazione come esseri umani. Nelle parole di Paul Jewett, affermare la subordinazione funzionale delle donne agli uomini in qualsiasi rispetto non può evitare l'accusa che le donne siano di conseguenza inferiori agli uomini[19]. Tuttavia, l'aver creato uomo e donna a immagine di Dio rende ciò impossibile. La mascolinità non è mai intrinsecamente superiore, sebbene sia, innegabilmente, il genere in cui Dio ha scelto di nominare se stesso più comunemente.

Con la seconda asseriscono che qualsiasi suggerimento di subordinazione nella Deità, persino l'affermazione di una subordinazione funzionale del Figlio al Padre, non può evitare almeno un implicito arianesimo[20]. I teologi paleocristiani, verosimilmente, respingevano qualsiasi argomento sulla subordinazione di un qualsiasi membro della Trinità a un qualsiasi altro. La completa uguaglianza di Padre, Figlio e Spirito Santo preclude qualsiasi tipo di subordinazionismo. Poiché il Figlio è homoousios, cioè consustanziale, con il Padre sbagliamo comunque nel parlare dello status subordinato del Figlio al Padre e, facendo questo, miniamo la vittoria dell'ortodossia di Attanasio a Nicea e proclamata sin da allora dalla chiesa.

Con la terza, tutto il linguaggio scritturale dell'autorità del Padre e della sottomissione del Figlio è solo e giustamente considerato nell'ambito della missione incarnazionale del Figlio. Precisamente qui, come Dio incarnato, poiché Cristo era il secondo Adamo e completamente umano, era necessario che si assoggettasse alla volontà del Padre. Perciò, come afferma Gilbert Bilezikian: "Cristo non si assunse il compito della redenzione del mondo perché era il numero due nella Trinità e il suo capo gli aveva detto di farlo o perché era stato declassato a un rango subordinato così da poter portare a termine un compito che nessun altro voleva neppure toccare"[21]. Per di più, una volta completata la missione di redenzione, il Figlio riassunse la posizione precedente e la piena uguaglianza nella Trinità, lasciandosi per sempre dietro il ruolo in cui aveva dovuto sottomettersi in obbedienza al Padre. Come Bilezikian commenta ancora: "Poiché non vi era subordinazione all'interno della Trinità prima dell'incarnazione della Seconda Persona, non ne rimarrà nulla dopo il suo completamento. Se dobbiamo parlare di subordinazione, si tratta soltanto di subordinazione funzionale o economica che appartiene esclusivamente al ruolo di Cristo in relazione alla storia umana"[22]. Così, se il linguaggio maschile predomina nella rappresentazione biblica di Dio, e se la relazione divina Padre-Figlio è eterna, niente di tutto ciò dimostra una relazione di autorità e obbedienza alla Deità, o una corrispondente relazione di autorità e sottomissione nelle relazioni umane.

La risposta all'accettazione egalitaria del linguaggio maschile trinitario e al rifiuto della subordinazione funzionale intra-trinitaria

Innanzi tutto, l'egalitarianismo si trova in una posizione difficile. Esso afferma la predominanza dei riferimenti biblici maschili per Dio, eppure sembra incapace, logicamente, di spiegare l'uso divinamente scelto del linguaggio maschile. È un dato di fatto, possiamo ribattere, come abbiamo visto prima con Achtemeier, che riferirsi a Dio col femminile risulterebbe in una confusione tra Creatore e creazione. Deve però essere per forza così? Persino Achtemeier ammette di no, malgrado sia convinta che probabilmente lo sarà. Tuttavia, se Dio stesso pensava e credeva nello stesso modo degli egalitari, non avrebbe potuto superare la presunta confusione erronea tra Creatore e creatura che ne sarebbe risultata, se avesse scelto così, deliberatamente, di utilizzare metafore maschili e femminili nella stessa proporzione? Egli poteva certamente rendere chiaro, come ha fatto, di essere Spirito e non un essere sessuato o ascrivibile a un genere. Inoltre, avrebbe potuto chiarire che, quando si riferisce a se stesso come Madre, non sta con ciò comunicando una connessione ontologica con il mondo. Dunque trovo difficile accogliere questa come una risposta completa e accettabile alla domanda su come mai Dio avesse scelto di nominarsi in termini maschili, ma mai femminili.

C'è un'altra ovvia ragione, una con cui gli egalitari sembrano scontrarsi regolarmente senza riconoscerla per quel che è. Per esempio, nelle riflessioni di Wainwright su Dio come "Padre", egli nota che: "Padre era il nome che la seconda persona nella sua umana esistenza considerò più appropriato per rivolgersi alla prima persona". Ma perché è così? A questa domanda Wainwright può solo replicare che "deve esserci ... qualcosa nella paternità umana che rende Padre un modo appropriato per Gesù di denominare colui che lo aveva inviato. In termini trinitari, il punto cruciale è che Padre era il modo di rivolgersi che Gesù usò tipicamente in questa connessione"[23]. Comunque, che cosa insomma sia quel "qualcosa", Wainwright non ce lo dice. Eppure non è ovvio? Gesù ripeté durante tutto il proprio ministero di essere venuto per fare la volontà del Padre. Chiaramente, una parte centrale della nozione di "Padre" è quella dell'autorità paterna. Certamente essere padre non finisce lì, ma se anche c'è di più, vi è sicuramente non di meno o altro. La terminologia maschile usata per definire Dio nelle Scritture trasmetteva, nell'ambito delle culture patriarcali di Israele e della chiesa paleocristiana, l'ovvio concetto che Dio, descritto in modi maschili, esercitava l'autorità sul proprio popolo. Padre, Re e Signore comunicavano, con il loro riferimento al genere maschile, una legittima autorità che si doveva rispettare e seguire. Malachia 1,6 per esempio, indica proprio questa connessione tra padre e autorità. Egli scrive: "“Un figlio onora il padre e un servo il padrone. Se sono un padre, dov'è l'onore che mi è dovuto? Se sono un padrone, dov'è il rispetto che mi è dovuto?”, dice il SIGNORE Onnipotente". Dio come Padre merita legittimamente l'onore, il rispetto e l'obbedienza dei propri figli. Non riuscire a vedere ciò vuol dire lasciarsi sfuggire uno dei motivi principali per cui Dio scelse la terminologia maschile per nominare se stesso.

In secondo luogo, se la chiesa paleocristiana accoglie chiaramente la piena uguaglianza essenziale delle tre persone trinitarie (perché ciascuna delle tre persone divine possiede appieno e simultaneamente la stessa identica natura divina infinita), la chiesa ha nondimeno sempre affermato parimenti la precedenza del Padre sul Figlio e lo Spirito. Siccome tale precedenza non può giustamente essere compresa in termini di essenza o natura (a meno di non ricadere nel subordinazionismo ariano), essa deve esistere in termini di relazione[24]. Come affermato da Agostino, la distinzione delle persone è costituita precisamente dalle diverse relazioni tra di loro, in parte manifeste dall'intrinseca autorità del Padre e intrinseca sottomissione del Figlio. Ciò è più evidente nell'eterna relazione Padre-Figlio, in cui il Padre è eternamente il Padre del Figlio e il Figlio eternamente Figlio del Padre. Tuttavia, qualcuno potrebbe chiedersi, questo comunica un'eterna autorità del Padre e un'eterna sottomissione del Figlio? Vediamo come Agostino discute sia l'essenziale uguaglianza di Padre e Figlio e la missione del Figlio che fu inviato, nell'eternità trascorsa, per obbedire ed eseguire la volontà del Padre:

Se dunque il Figlio si dice mandato dal Padre perché questi è Padre e quello è Figlio, niente ci impedisce di credere che il Figlio sia uguale e consustanziale al Padre e che tuttavia il Figlio sia stato mandato dal Padre. Non perché l’uno sia superiore e l’altro inferiore, ma perché l’uno è Padre e l’altro è Figlio, l’uno genitore e l’altro generato, l’uno è colui da cui procede l'inviato, l’altro è colui che procede da chi lo invia. Infatti è il Figlio che ha origine dal Padre, non il Padre dal Figlio. Conseguentemente possiamo capire che la missione del Figlio non si identifica semplicemente con l’incarnazione del Verbo, ma è il principio che ha determinato l’incarnazione del Verbo e il compimento da parte di lui, personalmente presente, degli eventi che sono stati registrati. In altre parole, la missione non è solo dell’uomo assunto dal Verbo, ma altresì del Verbo che è stato mandato a farsi uomo. Perché la sua missione non presuppone una differenza di potere o di sostanza o di altro nei riguardi del Padre, ma presuppone l’origine del Figlio dal Padre, non del Padre dal Figlio[25].

Si notino due osservazioni dalla dichiarazione di Agostino. Primo, Agostino non vede alcuna differenza tra l'affermazione, da un lato, della completa uguaglianza del Figlio al Padre e, dall'altro, l'eterna posizione del Figlio che procede dal Padre, la cui responsabilità è di eseguire la volontà del Padre come quegli inviato da tutta l'eternità dal Padre. Quanto affermato da Jewett sul fatto che la subordinazione funzionale implichi un'essenziale inferiorità viene qui negato da Agostino. Secondo, si noti che Agostino nega l'asserzione di Bilezikian che tutta la subordinazione del Figlio al Padre sia riposta completamente nell'incarnazione del Figlio. Al contrario, Agostino afferma che "la missione del Figlio non si identifica semplicemente con l’incarnazione del Verbo, ma è il principio che ha determinato l’incarnazione del Verbo". In altre parole, l'invio del Figlio ebbe luogo nell'eternità trascorsa affinché il Verbo eterno, inviato dall'alto dal Padre, potesse incarnarsi e quindi continuare il proprio ruolo di esecutore della volontà del Padre.

Come scrive P. T. Forsyth, la bellezza dell'uguaglianza simultanea del Figlio con il Padre e dell'obbedienza a Lui illustra il servizio volenteroso che Dio si propone di ottenere dal proprio popolo. Forsyth asserisce che "la subordinazione non è inferiorità ed è simile a Dio. Il principio è incastonato nella coesione stessa della trinità eterna ed è inseparabile dall'unità, fraternità e vera uguaglianza degli uomini. Non è un segno di inferiorità l'essere subordinati, rispondere a un'autorità, obbedire. È anzi divino"[26]. Altrove Forsyth chiarisce che l'obbedienza del Figlio al Padre era davvero un'eterna obbedienza, offerta da un eternamente uguale, che costituisce un'eterna subordinazione del Figlio alla volontà del Padre. Egli scrive:

Padre e Figlio coesistono, coeguali nello Spirito della santità, ovvero della perfezione. Tuttavia, la relazione Padre-Figlio è inconcepibile se non nell'obbedienza del Figlio al Padre. La perfezione del Figlio e il perfezionamento della sua santa opera sta non nella sua sofferenza, bensì nella sua obbedienza e, poiché egli era il Figlio eterno, ciò significava un'eterna obbedienza ... ma l'obbedienza non è concepibile senza una qualche forma di subordinazione. Tuttavia, proprio in questa stessa obbedienza il Figlio era coeguale al Padre; la volontà cedevole del Figlio era non meno divina di quella rigorosa del Padre. Perciò, nella natura stessa di Dio, la subordinazione non sottintende alcuna inferiorità[27].

Terzo, la negazione egalitaria di una qualsivoglia sottomissione eterna del Figlio al Padre rende impossibile rispondere alla domanda del perché fosse il "Figlio" e non il "Padre" o lo "Spirito" a essere inviato per incarnarsi. E ancora più essenziale è la questione del perché gli eterni nomi per "Padre" e "Figlio" siano esattamente questi nomi. John Thompson ha mostrato la tendenza in molte delle moderne discussioni trinitarie a separare la cristologia dalle formulazioni trinitarie. Egli scrive che "la cristologia e la Trinità si erano praticamente separate. Si dichiarava e insieme presumeva che una qualsiasi delle tre persone potesse incarnarsi. ... Vi era dunque soltanto una relazione accidentale tra l'economia della rivelazione e redenzione e l'essere eternamente uno e trino di Dio"[28]. Apparentemente anche l'egalitarianismo contemporaneo è passibile di questa critica. Dal momento che nulla in Dio prepara il Figlio a essere il Figlio del Padre e poiché ciascun aspetto della sottomissione terrena del Figlio è del tutto separata da qualsiasi relazione eterna che esista tra il Padre e il Figlio, non vi è semplicemente alcun motivo perché il Padre debba inviare il Figlio. Dalle parole di Thompson pare che il punto di vista egalitario consenta a "una delle tre persone" di incarnarsi. Tuttavia, abbiamo la rivelazione scritturale che afferma chiaramente che il Figlio scese dal cielo per fare la volontà del Padre. Non si trattava di una missione improvvisata. Nell'eternità il Padre incaricò il Figlio, che quindi volontariamente abbandonò la gloria di cui godeva con il Padre per venire a comprare il nostro perdono e rinnovamento. Tale gloria risulta sminuita se non c'è un'eterna relazione Padre-Figlio in base a cui il Padre invia, il Figlio volontariamente arriva e lo Spirito volontariamente concede.

E infine quale prova biblica esiste per l'eterna subordinazione funzionale del Figlio al Padre? Un tema ricorrente nella storia di questa dottrina (come si è visto prima in Agostino e Forsyth) è che il Figlio fu incaricato dal Padre nell'eternità trascorsa di venire come il Figlio incarnato. Come Gesù dichiara in almeno oltre trenta occasioni nel vangelo di Giovanni, egli fu inviato sulla terra dal Padre per fare la volontà del Padre. Può questo essere ridotto al semplice invio del Figlio incarnato per compiere la missione che il Padre gli aveva riservata, ora che è già giunto nel mondo? Oppure dobbiamo pensare a questo invio, a questo incarico, come se fosse avvenuto nell'eternità trascorsa, un incarico che quindi viene compiuto in tempo? Le Scritture, sembrerebbe chiaro, esigono quest'ultimo punto di vista.

Si consideri, per esempio, l'asserzione di Pietro nel suo sermone della Pentecoste riportato negli Atti 2. Riguardo a Cristo dice: "Quest'uomo vi fu dato nelle mani secondo il determinato consiglio e prescienza di Dio, e voi lo prendeste, e per mani di iniqui lo inchiodaste alla croce e lo uccideste " (Atti 2,23). La crocifissione di Cristo compì il "determinato consiglio" di Dio, che egli aveva stabilito molto tempo prima dell'effettiva incarnazione. Anche se questo versetto da solo non ci dice esattamente a quanto in là risalisse il piano di Dio, sappiamo da numerose profezie bibliche (per esempio, Salmo 22; Isaia 9,6-7; Isaia 53; Michea 5,2, per menzionare alcuni tra i più degni di nota) che Dio aveva pianificato e predetto con precisione, molto tempo prima dell'incarnazione, la nascita, vita, morte e trionfo finale del Figlio. Se l'avvento di Cristo portò a compimento il "determinato consiglio" di Dio, e se tale consiglio fosse stato stabilito ben prima dell'incarnazione, è dunque chiaro che l'incarico al Figlio avvenne nella relazione di Cristo con il Padre nella trinità immanente e non dopo la sua venuta come Figlio incarnato. Si consideri un'altra affermazione di Pietro. Riguardo all'opera redentrice di Cristo, Pietro scrive: "Egli [Cristo] fu preconosciuto prima della fondazione del mondo, ma manifestato negli ultimi tempi per voi" (1Pietro 1,20). Se ci chiediamo a quanto tempo addietro risalga l'incarico al Figlio, questo versetto risolve la questione. Prima che il mondo fosse creato, il Padre scelse (letteralmente "presagì") l'avvento del Figlio come redentore. L'avvento del Figlio in tempo per versare il proprio sangue riflette non una decisione estemporanea, o un testa o croce della moneta trinitariana, bensì l'eterno fine del Padre di inviare e offrire il proprio Figlio.

Efesini 1,3-5 e Rivelazioni 13,8 confermano tale conclusione. In Efesini, Paolo loda Dio Padre per aver scelto il proprio popolo in Cristo prima della fondazione del mondo e averlo predestinato all'adozione in quanto figlio tramite Gesù Cristo. Poiché Paolo specificamente 1) loda il Padre per tale elezione e predestinazione, 2) designa Cristo come colui verso il quale è diretta la nostra elezione e predestinazione e 3) afferma che il fine e piano elettivo del Padre avvenne prima della creazione del mondo, ne consegue che l'incarico del Padre al Figlio è fondato nell'eternità trascorsa e che la sottomissione del Figlio al Padre è radicata nella loro eterna relazione nell'ambito della Deità. Rivelazioni 13,8 indica parimenti che il libro della vita in cui i nomi dei credenti sono stati registrati esiste 1) dalla fondazione del mondo e 2) appartiene all'Agnello che fu ucciso. Ancora una volta, dunque, abbiamo una prova evidente che il fine del Padre dall'eternità trascorsa era di inviare il proprio Figlio, l'Agnello di Dio, tramite il quale il suo popolo sarebbe stato salvato. La relazione autorità-obbedienza di Padre e Figlio nella trinità immanente è imprescindibile, se vogliamo spiegarci l'eterno fine di Dio Padre nell'eleggere e salvare i suoi attraverso il proprio figlio diletto.

Ma, come ribatte Bilezikian, sarà Cristo un giorno elevato allo stesso status o uguaglianza di ruolo come quello del Padre? Si consideri l'affermazione di Paolo sulla realizzazione dell'opera riconciliatrice di Cristo in un giorno a venire. Egli scrive: "Dio infatti ha posto ogni cosa sotto i suoi piedi. Quando però dice che ogni cosa gli è sottoposta, è chiaro che ne è eccettuato colui che gli ha sottoposto ogni cosa.
E quando ogni cosa gli sarà sottoposta, allora il Figlio sarà anch’egli sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti" (1Corinzi 15, 27-28). Poiché Cristo fu incaricato nell'eternità trascorsa a venire, nel tempo e nella storia, per compiere la volontà del Padre, quando tale opera sarà compiuta, Cristo tornerà alla stessa posizione che occupava in precedenza con il Padre. Nel possedere nuovamente la gloria completa del Padre (Giovanni 17,5), egli si assoggetterà al Padre (1Corinzi 15,28). La relazione di Padre e Figlio nell'eternità trascorsa, nella vita storica e incarnata di Cristo, e nell'eternità futura, è dunque la stessa. Cristo è uguale in tutto e per tutto nell'essenza al Padre, seppur subordinato nel ruolo. Le Scritture confermano chiaramente tali verità e lo stesso dobbiamo fare noi nella chiesa.

Conclusioni

Abbiamo esaminato due aree nella dottrina della Trinità che attualmente sono sottoposte ad ampio e significativo revisionismo: il corrente rifiuto femminista del linguaggio trinitario prevalentemente maschile nelle Scritture e quello del femminismo evangelico delle eterne relazioni intra-trinitarie di autorità e obbedienza. Ciascuna area esige grande attenzione da parte dei cristiani che riflettono e pregano. Poiché abbiamo la parola ispirata di Dio e poiché Dio ha, in questo mondo, fatto conoscere la propria vita una e trina, dobbiamo cercare di studiare, credere e accogliere la verità di Dio, come resa nota qui, con rinnovato impegno. Là dove siamo stati sviati dalla storia di tale dottrina, possano le Scritture condurci alla rettifica. Ma là dove la revisione contemporanea si allontana dal lampante insegnamento delle Scritture, possiamo noi avere il coraggio di stare con la verità e per la verità. Per la gloria del solo vero Dio vivente, che è Padre, Figlio e Spirito Santo, possiamo noi offrire in pegno a lui solo la nostra fedeltà, obbedienza e amore.

Appendice: punti di applicazione pratica

1. Accettare le legittime strutture dell'autorità. Poiché la struttura dell'autorità e obbedienza non è stabilita soltanto da Dio, ma è, persino di più, propria alla stessa vita intra-trinitaria di Dio, come il Padre stabilisce la propria volontà e il Figlio obbedisce con gioia, non dobbiamo perciò disdegnare, bensì accogliere le giuste linee di autorità e obbedienza. A casa, nella comunità dei credenti e nella società le legittime linee di autorità sono buoni, saggi e splendidi riflessi della realtà che è Dio stesso. Ciò vale per quelli nelle posizioni ordinate da Dio di sottomissione e obbedienza che devono dunque accettare con gioia questi giusti ruoli di sottoposti. Vale allo stesso modo per quelli ordinati da Dio in posizioni di autorità che devono accogliere i giusti ruoli di autorità responsabile ed esercitarla per il Signore.

2. Vedere autorità e sottomissione come entrambe simili a Dio. Con P. T. Forsyth dobbiamo vedere non soltanto l'autorità, ma pure la sottomissione come simile a Dio. Siamo più pronti ad associare Dio con l'autorità, ma dal momento che il Figlio è il Figlio eterno del Padre, e poiché il Figlio è eternamente Dio, ne consegue allora che la natura intra-trinitaria di Dio onora sia l'autorità, sia la sottomissione. Proprio com'è simile a Dio comportarsi con responsabilità e decoro, così è similmente divino essere sottomessi nelle relazioni umane quando ciò è richiesto. È divino per le mogli sottomettersi ai propri mariti; è divino per i figli obbedire ai propri genitori; è divino per i membri della chiesa seguire le regole dei propri pii presbiteri. Si esamini Filippesi 2,5-11 per vedere come si esprime il modello della sottomissione divina. Noi onoriamo Dio nel riprodurre la relazione autorità-sottomissione che caratterizza le stesse persone della Trinità.

3. Infondere nuova vita al retto concetto biblico di Dio come Padre. Così come Gesù ci istruì nella sua preghiera modello (il Padre Nostro) dobbiamo pregare il "Padre nostro che sei nei cieli". Il concetto e la realtà di Dio in quanto Padre risplendono fulgidi e non dobbiamo perdere questo articolo della fede e pratica ecclesiastiche a causa di padri violenti o confusione culturale su che cosa sia la paternità. "Dio in quanto Padre" si rifà a due idee che si bilanciano e si completano a vicenda: riverenza (per es., sia benedetto il tuo nome) e dipendenza (per es., dacci oggi il nostro pane quotidiano). Dio in quanto Padre merita il nostro massimo rispetto e devozione assoluta, merita la nostra incondizionata fiducia nell'affidarci a lui. Essere devoti e affidarsi a Dio in quanto Padre coglie nell'essenza tutto quello che la nostra vita dovrà essere dinanzi a lui.

4. La nostra comune adozione nella famiglia di Dio è in quanto figli. Tutti noi, come figli di Dio, dobbiamo accettare la legittima autorità divina sulla nostra vita. Siamo tutti figli di Dio (υἱοὶ θεου) attraverso la fede in Gesù Cristo (Galati 3,26) e come figli dobbiamo vedere il nostro ruolo, come con il ruolo dell'eterno Figlio, sempre e solo per sottometterci alla volontà del Padre nostro. Paradossalmente, quando offriamo obbedienza completa, entriamo completamente nella vita come Dio la creò per essere. Come disse Gesù: "Se osservate i miei comandamenti, dimorerete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e dimoro nel Suo amore.
Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia piena" (Giovanni 15,10-11). Dobbiamo obbedire senza riserve, completamente e con grande anticipazione di benedizioni perché, nell'obbedire, entriamo in una gioia completa e durevole.

5. La nostra adorazione è per Dio uno e trino, uguale in essenza, ma diverso nel ruolo. La bellezza e armonia del creato di Dio della diversità nell'unità (come si vede per es. nel matrimonio e nel corpo di Cristo) è eternamente e immutabilmente radicata in Dio stesso. Adoriamo Dio solo quando lo sosteniamo per quello che egli è. Se disdegniamo l'unità e "celebriamo la diversità" che è frammentata e disgiunta, o disdegniamo la diversità insistendo in un'uniformità che nega le differenze create e ordinate da Dio, non terremo in dovuto conto Dio per chi egli è e dunque non lo onoreremo per quello che è. In Dio, la diversità delle persone serve l'unità del fine, metodo e obiettivo. La volontà del Padre è eseguita con gioia dal Figlio. Quando giunge lo Spirito, fare la volontà del Figlio è per esso una gioia. Sono uniti nel fine, diversi nei ruoli, e in entrambi (fine e ruoli) vi è una lieta accettazione. Insieme, le tre persone definiscono quello a cui la nostra "diversità nell'unità" della relazione deve assomigliare e come la nostra vita insieme dovrà essere vissuta.



Note

  1. Questo articolo fu inizialmente presentato in forma di saggio alla conferenza "Costruire famiglie forti", Dallas, Texas, 20-22 marzo 2008, sponsorizzata congiuntamente da Family Life e il Consiglio sulla mascolinità e femminilità bibliche. Una versione più lunga e redatta apparirà come parte del prossimo capitolo "La dottrina della Trinità", in Dio sotto attacco: gli studiosi moderni reinventano Dio, a cura di Douglas S. Huffman ed Eric L. Johnson (Zondervan).
  2. Si esamini un campione di opere recentemente pubblicate e si noti la varietà di prospettive teologiche e interessi rappresentati tra i loro autori: Colin E. Gunton, La promessa della teologia trinitariana (Edimburgo, T. &amp;amp; T. Clark, 1991; 2a ed., 1997); Ted Peters, Dio come Trinità: relazionalità e temporalità nella vita divina (Louisville, Westminster/John Knox, 1993); Thomas F. Torrance, Prospettive trinitarie: verso l'accordo dottrinale (Edimburgo, T. &amp;amp; T. Clark, 1994); Duncan Reid, Energie dello Spirito: modelli trinitariani nella teologia ortodossa orientale e occidentale (Atlanta, Scholars Press, 1997); Kevin Vanhoozer, a cura di, La Trinità in un'età pluralistica: saggi teologici su cultura e religione (Grand Rapids, Eerdmans, 1997).
  3. Donald Bloesch, La battaglia per la Trinità: il dibattito sul linguaggio inclusivo di Dio (Ann Arbor, Servant, 1985).
  4. Geoffrey Wainwright, "La dottrina della Trinità: dove la Chiesa cade o resta salda", Interpretation 45 (1991) 117.
  5. Mary Daly, Oltre Dio Padre: verso una filosofia della liberazione delle donne (Boston, Beacon, 1973) 19.
  6. Vedi, per es., Carol Christ e Judith Plaskow, a cura di, Lo spirito della donna in ascesa: una lettrice femminista nella religione (San Francisco, Harper &amp;amp; Row, 1979); Virginia Mollenkott, Il Divino Femminino: l'immagine biblica di Dio in quanto Femmina (New York, Crossroad, 1983); Rosemary Radford Ruether, Sessismo e discorso su Dio: verso una teologia femminista (Boston, Beacon, 1983); Ruth Duck, Genere e Nome di Dio: la formula battesimale trinitariana (New York, Pilgrim, 1991); Elizabeth Johnson, Colei che è: il mistero di Dio nelle discussioni teologiche femministe (New York, Crossroad, 1992); Gail Ramshaw, Dio oltre il genere: il linguaggio femminista cristiano su Dio (Minneapolis, Fortress, 1995); Ada Besanon Spencer, et al., Il Revival della Dea (Grand Rapids, Baker, 1995).
  7. Per uno studio e critica puntigliosamente ricercati di questa argomentazione, vedi Alvin F. Kimel jr., a cura di, Parlare il Dio cristiano: la Sacra Trinità e la sfida del femminismo (Grand Rapids, Eerdmans, 1992); John W. Cooper, Padre nostro nei cieli: fede cristiana e linguaggio inclusivo di Dio (Grand Rapids, Baker, 1998).
  8. Notare che i credi paleocristiani parlano della seconda persona in quanto "generata" non fatta, che, come tale, non contiene alcuna connotazione di genere. Si può dunque asserire che parlare del Figlio generato del/della Padre/Madre è coerente con il linguaggio della chiesa paleocristiana e ne conserva la continuità, pur apportandovi le dovute correzioni.
  9. Notare l'eloquente titolo dell'articolo opposto al revisionismo femminista del linguaggio di Dio, cioè Elizabeth Achtemeier, "Scambiare Dio per “Nessun Dio”: una discussione del linguaggio femminile di Dio," in Kimel, a cura di, Parlare il Dio cristiano, 1-16.
  10. Per un'esauriente discussione sui riferimenti biblici a Dio che utilizzano immagini femminili, vedi Cooper, Padre nostro nei cieli, capitolo 3, "Riferimenti femminili e materni a Dio nella Bibbia", 65-90.
  11. Elaine Pagels, "Che ne è stato di Dio Madre? Immagini conflittuali di Dio nel paleocristianesimo", in Christ e Plaskow, a cura di, Lo spirito della donna in ascesa, 107, commenta che "l'assenza di un simbolismo femminile d Dio pone Ebraismo, Cristianesimo e Islam in netto contrasto rispetto alle altre tradizioni religiose nel mondo, quali quelle di Egitto, Babilonia, Grecia e Roma, o Africa, Polinesia, India, e Nord America".
  12. Achtemeier, "Scambiare Dio per “Nessun Dio”", 8-9.
  13. Vedi ibid. 12, in cui Achtemeier riconosce che molte femministe neghino che nominare Dio al femminile leghi Dio alla creazione, ma asserisce e quindi sostiene con numerose citazioni: "Ma gli stessi scritti femministi dimostrano che lo fa".
  14. Karl Barth, La teologia dottrinale della Chiesa, 4 vol. in 13 parti (Edimburgo, T. &amp;amp; T. Clark, 1936-1969), I. 2., 878-879, scrive: "Il contenuto della dottrina della Trinità . . . non consiste nel fatto che Dio nella Sua relazione all'uomo sia Creatore, Mediatore e Redentore, ma che Dio in Se stesso è eternamente Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. . . . [Dio] non può essere dissolto nella Propria opera e attività".
  15. Wainwright, "La dottrina della Trinità", 123.
  16. Il termine "complementariano" è l'auto-designazione del collegio evangelico che vedrebbe nel disegno di Dio per gli uomini e le donne l'inclusione della leadership maschile nell'ordine creato, la quale riflette se stessa nell'esigenza di qualificati presbiteri uomini nella chiesa e nell'onnicomprensiva responsabilità del marito nella leadership domestica. Il singolo miglior libro che descriva e difenda la visione complementariana è John Piper e Wayne Grudem, a cura di, Recuperare la mascolinità e femminilità bibliche (Wheaton, Crossway Books, 1991).
  17. Vedi per es. Gilbert Bilezikian, "Bungee-jumping ermeneutico: la subordinazione nella Deità", Rivista della Società teologica evangelica, 40/1 (marzo 1997) 57-68; Stanley J. Grenz, "Fondamenti teologici nelle relazioni tra uomo e donna", Rivista della Società teologica evangelica 41/4 (dicembre 1998) 615-630; Royce G. Gruenler, La Trinità nel vangelo secondo Giovanni: commento tematico sul Quarto Vangelo (Grand Rapids, Baker, 1986); Millard Erickson, Dio in tre persone: un'interpretazione contemporanea della Trinità (Grand Rapids, Baker, 1995).
  18. Alcuni egalitariani riconoscono l'eterna relazione intra-trinitariana Padre-Figlio, tuttavia non la intendono come implicante o comportante relazioni di autorità e sottomissione nell'ordine creato. Vedi Craig Keener, "La subordinazione nell'ambito della Trinità è davvero un'eresia? Uno studio di Giovanni 5,18 in contesto", La Rivista della Trinità 20 NS (1999) 39-51.
  19. Vedi per es. Paul K. Jewett, L'Uomo come maschio e femmina: studio delle relazioni dal punto di vista teologico (Grand Rapids, Eerdmans, 1975), in cui si chiede: "Come si può difendere una gerarchia sessuale secondo la quale gli uomini sono al di sopra delle donne . . . senza dedurne che la metà del genere umano che esercita l'autorità sia in qualche modo superiore all'altra che si sottomette?" (p. 71). L'autore prosegue domandandosi inoltre se qualcuno possa "determinare il punto controverso, la subordinazione della donna all'uomo, evidenziando il punto ovvio, la differenza tra donna e uomo, senza far ricorso a quello tradizionale, l'inferiorità della donna rispetto all'uomo? La risposta, così ci sembra, è no" (p. 84).
  20. Bilezikian, "Bungee-jumping ermeneutico", 67, dice per es. che qualsiasi discorso sulla subordinazione "sa di eresia ariana".
  21. Ibid., 59.
  22. Ibid., 60.
  23. Wainwright, "La dottrina della Trinità", 120 (corsivo aggiunto).
  24. Per una discussione della prova che la teologia della chiesa paleocristiana sostenesse la simultanea uguaglianza eterna dell'essenza e pure la relazione funzionale di autorità e obbedienza tra le persone della Deità una a trina, vedi inoltre Robert Letham, "Il dibattito uomo-donna: commento teologico", Rivista teologica Westminster 52 (1990) 65-78; Stephen D. Kovach e Peter R. Schemm jr, "Una difesa della dottrina dell'eterna subordinazione del Figlio", Rivista della Società teologica evangelica 42/3 (settembre 1999) 461-476. In uno spazio limitato, Kovach e Schemm citano esempi da Ilario di Poitiers, Attanasio, i padri cappadoci e Agostino, con commenti a sostegno di Giovanni Calvino, Philip Schaff, Jaroslav Pelikan, J. N. D. Kelly, Charles Hodge, W. G. T. Shedd, e riportano (p. 471) le conclusioni di Paul Rainbow, "Trinitarianesimo ortodosso e femminismo evangelico", 4 (saggio non pubblicato, basato sulla sua dissertazione "Monoteismo e Cristologia in 1Corinzi 8,4-6" [diss. D.Phil., Oxford University, 1987]), in cui Rainbow conclude: "Dalla prima forma del credo possiamo vedere che il Padre e il Figlio sono uniti nell'essere, ma occupano ranghi diversi nella funzione".
  25. Sant'Agostino, La Trinità, trad. Edmund Hill, vol. 5, Opere (Brooklyn, NY, New City Press, 1991) IV 27 (corsivo aggiunto). (NdT: per le opere complete di Sant'Agostino in italiano vedi http://www.augustinus.it/italiano/index.htm)
  26. P. T. Forsyth, Dio Padre Santo (1897; ristampa Londra, Independent Press, 1957) 42.
  27. P. T. Forsyth, Il matrimonio: etica e religione (Londra, Hodder and Stoughton, 1912) 70-71.
  28. Thompson, Prospettive trinitariane moderne, 22.